Questa è la storia di una famiglia che dell’erosione delle coste in Bangladesh ha fatto un’impresa.
Le coste del Bangladesh arretrano, l’oceano avanza. Tra le vittime ci sono anche le silenziose foreste costiere.
Molte persone emigrano nelle città, ma non queste due donne, che si sono create un lavoro grazie all’erosione della costa.

La donna che pesca mattoni

Fotografie di Andrea Frazzetta
Le coste del Bangladesh stanno sprofondando nell'Oceano Indiano, ma Komola Begum ha imparato ad adattarsi, inventando una nuova professione.

19 minuti | 27 Novembre 2020

L’argine che separa il continente dall’oceano è alto tre metri, ed è lastricato di mattoni rossi disposti a lisca di pesce. È un confine artificiale, una barriera difensiva contro la furia del mare. Da un lato, lasciato l’abitato caotico di Kuakata, c’è la campagna: piccoli campi di riso, oppure pascoli per qualche mucca, e abitazioni precarie in lamiera. Dall’altro c’è l’orizzonte piatto e placido del Golfo del Bengala che, nella luce tiepida della mattina tropicale, si confonde con il cielo carico di umidità. A cavallo tra oceano e campagna c’è un argine, che dovrebbe difendere la campagna dall’erosione marina che si sta portando via la spiaggia. E su questo c’è Komola Begum, che dal cambiamento che sta avvenendo ne ha tratto una professione. Il grande triciclo azionato a pedali salta sui mattoni sconnessi lungo il terrapieno. Fa da via di comunicazione lungo i 20 chilometri di costa, sulla punta meridionale della Provincia di Barishal nel Bangladesh, a poche centinaia di chilometri da Dhaka. La provincia è separata dall’India delle Sundbarns, la più grande foresta di mangrovie al mondo, dove ancora la tigre riesce a sfuggire alla pressione della nostra specie. La spiaggia è soggetta a una storia di erosione marina secolare, ma che ora sta diventando sempre più veloce e irresistibile. A Kuakata la linea di costa arretra al ritmo di 100 metri circa in dieci anni. Un peccato, anche perché secondo le guide turistiche questa è “una delle spiagge più speciali al mondo”, da dove si gode uno spettacolare tramonto sull’Oceano Indiano. Ma i cambiamenti climatici e ambientali che hanno origini in Paesi remoti stanno minacciando villaggi, strade, coltivazioni e foreste. Poco lontano da dove i turisti contemplano il sole che smorza i suoi raggi filtrati dall’atmosfera e si fanno i selfie con le dita a cuore ci sono tronchi morti e alberi morenti, ormai vinti dalle onde del mare. Sono in attesa che il prossimo ciclone ne sradichi ciò che resta. L’erosione incalza. È proprio sull’argine di difesa da onde e cicloni che compare un cumulo di frammenti di mattoni rossi. Sono grandi quanto una noce, ma abbastanza per formare una montagna di un metro e mezzo. Da questo proviene il tocco ritmato di un martelletto che batte. Dietro al cumulo c’è Komola Begum, una donna avvolta in un velo colorato. È lei che, rannicchiata a terra, rompe i mattoni e li accatasta sulla montagna. L’attività di Komola Begum è l’inatteso risultato di intraprendenza e adattamento al cambiamento ambientale di cui la donna è testimone. Il Bangladesh è uno dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico, da cui ci si attendono ingenti migrazioni di uomini e famiglie. Ma, pur conoscendo la forza dei peggiori cicloni della Terra, Komola Begum dell’erosione della spiaggia ne ha fatto un’impresa, si è creata un lavoro. E non ha intenzione di migrare. Insieme alla sorella Kulsum Begum, e talvolta coinvolgendo altri componenti della famiglia, Komola Begum estrae frammenti di mattone dalla piana di marea, quando il mare si ritira.
Il figli di Komola Begum, Lalchan e Bellal, cercano mattoni sulla spiaggia non lontano da casa in un misto tra gioco e lavoro.
Foreste che erano. Mangrovie e casuarina, ma anche piccole piantagioni di alberi di cocco sono vittime immobili dell’erosione della costa.
Rafigul Islam e la moglie Romana Parvin hanno fatto un lungo viaggio in bus per ritrarsi di fronte ad uno dei tramonti più belli del Golfo del Bengala.
Quei mattoni sono i resti di abitazioni che un tempo si trovavano dove ora c’è il bagnasciuga. «Qui c’erano diverse case, e là in fondo persino un cimitero di una comunità giunta dalla Birmania», dice Komola Begum, indicando vagamente il mare. È stato nel 2006 che Komola ha pensato che questo potesse essere un lavoro. E tutto ciò è il risultato dell’erosione costiera che qui fa arretrare la costa al ritmo di una media di 10 metri l’anno. Kuakata è l’ultima cittadina dell’immenso delta del sistema fluviale del Gange-Brahmaputra-Meghna, quella arteria di acqua che coinvolge Cina, India, Nepal, Buthan e il Bangladesh e che qui si getta infine nell’Oceano Indiano. È un bacino che soffre e che soffrirà sempre di più per l’aumento degli eventi siccitosi in India, e per la fusione dei ghiacciai, migliaia di chilometri più a monte, in regioni dove si parlano lingue diverse, si pregano divinità diverse. Il nonno di Komola Begum, che tutti in famiglia sostengono abbia almeno 130 anni, ricorda che 25 anni fa abitava 80 metri dall’attuale linea di costa. Ma dalla parte dove ora c’è il mare. «Io ho già visto due strade scomparire nel mare», spiega un giovane biker di 26 anni. Come lavoro accompagna con la moto lungo la spiaggia chi ne faccia richiesta, o per turismo o per raggiungere villaggi vicini. «Quando ero giovane, per andare alla spiaggia, da Kuakata dovevamo attraversare una foresta. C’era una strada lungo la costa costruita dai pakistani, e poi un’altra tra la costa e kuakata. Ora non ci sono più, sono là in fondo», fa anche lui segno con la mano indicando vagamente l’orizzonte. Ma tutti dicono che ancora più in fuori, forse 10 chilometri più in là, c’era una strada costruita dagli inglesi. Molta della storia di Kuakata ora è disseminata nei fondali del Golfo del Bengala. «Ora speriamo nel nuovo terrapieno dei cinesi», dice ancora, questa volta indicando una ruspa che muove terra lungo l’attuale argine che è stato costruito nel 1985. Dietro alla ruspa c’è una distesa di blocchi di cemento, che l’impresa porrà a difesa dei futuri cicloni, in un progetto finanziato in gran parte dalla Banca Mondiale. «Il distretto prevede di costruire una nuova strada, ancora più interna», dice il biker, che conclude dicendo che questa barriera cinese è ben altra cosa rispetto a quella che aveva costruito il governo bengalese.
Professione biker. Sumon, Rezaul e Saiful sono parte di una grande comunità di biker che trasportano persone, o cose, lungo la spiaggia.
Pomeriggio sul lungomare. Dei giovani si svagano nel terrapieno di fronte a Kuakata.
La raccolta dei mattoni è spesso un affare di famiglia. Komola Begum cerca mattoni nelle pozze d’acqua insieme alla figlia Nar-un-Nabi, al figlio Bellal e a un’altra parente.
Ma là fuori c’è un oceano, sempre più caldo e carico di cicloni. L’erosione costiera a Kuakata è feroce. Comunità e autorità ragionano opponendo resistenza con blocchi di cemento, e costruendo nuove strade. Strade che scandiscono la storia coloniale del Paese, dagli inglesi, ai pakistani e ora il colonialismo economico dei Paesi industrialmente più potenti. Strade e argini inesorabilmente destinati a scomparire, sprofondati nel delta. Secondo uno studio recente, è vero che le vittime di inondazioni e cicloni sono diminuite, ma sono aumentati i danni alle infrastrutture. Komola Begum ha mostrato cosa si intende invece per resilienza, che scientificamente si potrebbe definire come la capacità di un sistema di modificarsi e adattarsi a una nuova condizione ambientale, trovando un nuovo equilibrio. Dopo aver visto la spiaggia arrivare fino alla sua proprietà, l’argine distrutto dal ciclone Sydr nel 2009 e la sua casa in lamiera scoperchiata, non è emigrata a Dhaka come molti altri. Si è invece adattata alla situazione, trovando un equilibrio che ora è diventato perfino un lavoro. «Faccio questo lavoro da 6 anni», dice. «In settimane molto produttive, per esempio durante i monsoni, quando l’erosione è più forte, riesco a produrre anche 80 sacchi. Faccio questo lavoro per i miei figli, per garantirgli un’educazione. In futuro forse mi ripagheranno». I frammenti estratti dal mare e sminuzzati dalla donna e sua sorella vengono usati nelle pavimentazioni di edifici e strade. «Ci sono i miei mattoncini anche nell’ospedale di Kuakata», dice sorridendo Komola Begum. A 1,20 euro per sacco, è quanto basta per mandare i suoi tre figli di 8, 10 e 15 anni a scuola. Quando riceve un ordine grosso, anche se non avviene di frequente, Komola Begum riesce a guadagnare 45 euro in una settimana. La storia dell’oceano che divora strade, campi e foreste ha radici lontane, e comunque questo è pur sempre un delta, una regione in continua evoluzione. Lo dimostrano la strada coloniale inglese da tempo scomparsa o le memorie del nonno di Komola Begum. Da un lato c’è la geologia: la subsidenza legata in parte alla natura dei sedimenti fluviali in quello che è uno dei delta fluviali più grandi al mondo. Mediamente, le aree costiere del Bangladesh sprofondano al ritmo di 4 millimetri l’anno (ma fino a 7 in alcuni punti). I sedimenti si compattano con il tempo e su tutto agisce anche anche uno sprofondamento del substrato roccioso, ancora legato alla formazione della catena himalayana. Questo è il risultato di vivere su un Pianeta dinamico come il nostro. Ma dall’altro c’è l’azione umana, molto più recente, ma molto più attiva sull’ambiente e il territorio. L’impatto più vicino e più recente è dovuto alla conversione di foreste costiere di mangrovie, e dell’economia prevalentemente agricola lungo le coste, a quella dell’acquacoltura. L’acquacoltura è approdata 3 decadi fa in Bangladesh, e oggi il paese è il quinto produttore al mondo. A favorire il passaggio dall’agricoltura alla produzione di gamberetti per le tavole europee o statunitensi è stata la progressiva salinizzazione dei suoli, dovuta alla subsidenza e alla risalita del livello marino. Così i campi, ma anche molte foreste, si sono trasformati in pozze per la gambericoltura e la piscicoltura. Oggi l’intrusione di acqua salina nelle falde può arrivare fino a 100 chilometri all’interno del Paese, ma con il tempo e a causa della risalita del livello marino, aumenterà anche il grado di salinità. Nella stagione secca, il 40% della superficie del Bangladesh è affetto dalla salinizzazione (che poi nel periodo monsonico si può ridurre al 10%). Il taglio delle mangrovie non ha fatto altro che accentuare lo sprofondamento, perché con le loro radici queste piante intrappolano il sedimento che ora scompare in mare. Ma ha anche tolto una difesa naturale contro i cicloni, che spingono le maree ancora più all’interno della regione. Il tutto per un prodotto destinato all’esportazione con capitali che vanno nelle città, che occupa meno persone, che riduce l’indipendenza alimentare del Paese, e soprattutto che coinvolge meno le donne, a differenza del lavoro agricolo.
Komola Begum e il figlio Bellal passano molto tempo insieme. Dopo la scuola, il bambino aiuta la madre nel suo lavoro quotidiano.
Le chiamano foreste fantasma, sono i resti ancora visibili di foreste costiere che sono andate perdute a causa dell’erosione marina.
Komola Begum, con il figlio Bellali, si prepara per il trasporto dei mattoni dalla spiaggia al cumulo dove verranno frantumati.
I primi problemi di gestione delle risorse qui sono però sorti nei tempi della colonizzazione pakistana, avvenuta dopo la disgregazione dell’impero britannico e la nascita di India e Pakistan (al Pakistan fu dato in gestione l’attuale Bangladesh). Negli anni ’60 le autorità cominciarono un’opera di polderizzazione, come nei Paesi Bassi in Europa, incanalando e costruendo argini artificiali nei vari canali del delta. L’idea era quella di ridurre le inondazioni periodiche che affliggevano i bengalesi. Questo è risultato nella scomparsa del periodico strato di sedimenti che si accumulava con il tempo a ogni inondazione, compensando la subsidenza. Come nelle Fiandre in Europa, i fiumi scorrono ora a una quota più elevata dei campi circostanti. Cosa che si rivela disastrosa in condizioni di eventi estremi, quando le maree si sposano con i cicloni e accadono i cosiddetti storm surges. In determinate circostanze i fiumi rompono gli argini inondando campi e villaggi con una violenza che non avverrebbe in assenza di argini. Il rischio di vedere le proprie abitazioni spazzate via da inondazioni è tale che molte persone ora vivono sulla strettissima fascia di un argine. È il classico caso in cui un rimedio si rivela più dannoso del problema. Ma c’è un problema ancora più a monte, perché i fiumi sono così, collegano Paesi e necessità diverse. Il flusso della stagione secca nel Gorai-Madhumati, il fiume che qui si distacca dal Gange-Bramhaputra-Meghna e che trasporta acqua dolce nelle parti occidentali della regione, è diminuito col tempo. Ciò è dovuto principalmente alla riduzione del flusso in seguito alla costruzione nel 1975 della diga di Farakka sul Gange, in India. Le previsioni fino a ora sostengono che l’India sarà sottoposta a stress idrico entro il 2025 e scarsità d’acqua entro il 2050. Gli ultimi anni hanno mostrato che però lo stress idrico è già qui. Se il governo indiano non è in grado di soddisfare la domanda interna, agricola e industriale, il rischio di disordini interni aumenterà. La diga sul Gange è proprio per soddisfare questa disperata richiesta idrica nel Paese. Ma ovviamente per il Bangladesh è come avere un rubinetto che ti chiude l’acqua, gestito da una potenza vicina con cui il dialogo non è sempre facile. Negli anni non sono mancati gli accordi internazionali tra i due Paesi per la gestione del fiume, ma di fatto poco è cambiato. La presenza della diga ha stravolto il normale flusso e la dinamica del delta. Alcuni canali e fiumi in cui il deflusso è diminuito si stanno colmando di sedimenti, mentre durante il periodo dei monsoni lo sbarramento viene aperto per far passare l’eccesso di acqua, causando piene a valle, nel Bangladesh.
Bellal passa molto tempo con sua madre, la aiuta sulla spiaggia, e talvolta la aiuta nella frammentazione dei mattoni, sul vecchio argine tra il mare e la terra.
Un cliente acquista diversi sacchi di cocci. Li userà come terrapieno per le fondazioni della sua nuova abitazione.
La piana di marea – la fascia che viene periodicamente sommersa e poi riemerge per le maree – vista dall’alto.
Un giorno di lavoro sulla spiaggia di Kuakata. Komola Begum raccoglie frammenti di mattoni che emergono dalla sabbia.
Infine c’è il livello marino, che sale a causa del riscaldamento globale. Ancora una volta un fenomeno fortemente influenzato dalle attività umane. E a ben vedere da attività umane che avvengono in altri Paesi e altri continenti più industrializzati ed emissivi, visto che il Bangladesh è uno dei Paesi che meno contribuisce all’emissione di gas climalteranti su questa Terra. Il livello marino che sale, il terreno che sprofonda, fanno sì che il livello marino misurato in Bangladesh stia aumentando di 7 millimetri l’anno dagli ultimi 50 anni, circa il doppio della media globale. Tutto ciò non può che rendere vulnerabili le coste del Bangladesh. Coste che l’occhio pone come una linea sottile al confine tra terra e mare, ma che per un Paese di cui almeno un decimo è a meno di 1 metro sul livello del mare, andrebbero topograficamente estese per centinaia di chilometri. E difatti almeno 75 milioni di persone sono a rischio per fenomeni legati al livello marino e potrebbero trasformarsi in migranti climatici. Già tra il 1970 e il 2009, eventi meteorici estremi hanno dislocato 39 milioni di persone. Ma non Komola, che dal cambiamento in atto ne ha tratto una professione. Il Bangladesh è al settimo posto nella scala dei Paesi più rischiosi per eventi legati al clima secondo l’agenzia German Watch, che compila annualmente l’Indice di Rischio Climatico Globale, ma Komola Begum continua a raccogliere i cocci di mattone abbandonati dalla storia. E li fa rivivere nelle fondamenta delle nuove case di Kuakata. Ogni giorno Komola Begum si muove lungo fangosa piana di marea. La memoria degli adulti e alcune fotografie mostrano ancora i resti di edifici, ora scomparsi, erosi dal mare. C’è chi scava dove le onde si infrangono ed è tutto fango e granchietti ed estrarre radici di mangrovie sepolte nella sabbia per farne del combustibile. Dove ora c’è una spiaggia piatta e liscia c’era una fitta foresta di mangrovie. Un cliente arriva accompagnato da un biker e compra quattro sacchi di cocci che nel pomeriggio, all’ora in cui i giovani nella loro divisa scolastica svolazzante nel vento dei tropici tornano da scuola, passerà a ritirare. Un gruppo di uomini ha invece ricevuto il permesso dal sindaco per estrarre tronchi e radici di Sanduri trees (Heritiera fomes), una mangrovia ottima come combustibile, fantasmi di una foresta ora sepolta dalla sabbia trasportata dal vento sempre più all’interno nell’entroterra.
Un’impresa cinese sta costruendo un nuovo argine, ancora più robusto, per la difesa dai tifoni. Ma quanto durerà, visto che l’erosione della costa continua?
Il ferry (traghetto) che unisce Dhaka a Patuakhali è anche uno degli accessi più comuni per i turisti in visita a Kuakata.
Mohamed Imran e Mohamed Azimuddin, appena giunti con un bus notturno da Dhaka, posano su quello che resta di una palma.
Komola Begum continua a estrarre mattoni rossi sul bagnasciuga seguendo il ritmo della marea. Il suo è un lavoro frutto del cambiamento ambientale. Intanto il terreno continua a sprofondare. Malgrado gli sforzi delle società di costruzioni cinesi, le onde e le correnti dovute ai venti monsonici di sud-ovest, alle alte maree astronomiche, ai cicloni con le loro mareggiate continueranno a scavare facendo arretrare le coste del Bangladesh. Coste che qui attraggono sempre più turisti intossicati dall’aria di Dhaka (e per questo il valore dei terreni, malgrado la subsidenza e l’aumento del pericolo naturale, sta salendo). Per loro la storia è qui e ora, e la radice della palma in mezzo al mare non è un allarme ma un piedistallo su cui ritrarsi con il cellulare, con alle spalle il disco solare e un pacchetto di chips in mano. «Quando eravamo giovani, gli anziani dicevano che la costa era molto lontana da qui», dice Komola Begum. «Preparavano le loro cose e andavano verso il mare, ma ora lo raggiungi in un passo. Le giovani generazioni non credono che il mare fosse così lontano». È difficile crederlo, in queste serate, in cui l’oceano e il sole sembrano essere del tutto docili e forse perfino addomesticati, ma questi sono processi geomorfologici, graduali e lenti, di cui ti accorgi solo quando vedi che i tuoi vicini sono emigrati a Dhaka, in Qatar, o in Europa mentre tu sei rimasta lì, a estrarre cocci dall’oceano.
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  • Andrea Frazzetta

    Andrea Frazzetta è un fotografo che lavora prevalentemente in Africa, Sudamerica e nel Mediterraneo. Le sue foto sono pubblicate regolarmente su New York Times Magazine e su National Geographic, e sono apparse su testate come New York Times, Guardian, Newsweek, Times, Der Spiegel e Vanity Fair. Per questo lavoro, realizzato con Jacopo Pasotti, ha ottenuto il Premio Giornalistico Luchetta 2020.
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  • Jacopo Pasotti

    Jacopo Pasotti è un giornalista, fotografo e scrittore di temi legati all’ambiente. Dal Polo nord all’Antartide, dall’Indonesia all’Amazzonia, racconta di società umane e di natura.

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