Sclavanie, la Slavia italiana

Testi di Davide Degano
Fotografie di Davide Degano
La Slavia friulana è una zona di confine tra colline e montagne, in cui le vecchie generazioni hanno lottato per mantenere in vita le tradizioni slovene.

14 minuti | 22 Ottobre 2021

La Slavia friulana è un territorio parte dell’ente di decentramento regionale di Udine. Si tratta di un’area collinare e in parte montana, che comprende le valli di due corsi d’acqua – il Torre e il Natisone – e, secondo alcuni, la val Resia. La Slavia friulana è una regione storico-geografica plasmata dai grandi eventi degli ultimi due secoli. Racchiude le alture prossime a Caporetto, le colline che furono scenario della Resistenza partigiana, un confine che per lunghi anni ha indirizzato le sorti di chi vive in questi luoghi.

Sclavanie è la parola friulana che indica la Slavia italiana ed è anche il titolo del progetto intrapreso a partire dal 2015 e concluso nell’estate 2020 da Davide Degano, fotografo diplomato alla Royal Academy of Art de L’Aia, nei Paesi Bassi. Sclavanie (si pronuncia con l’accento sulla “i” finale) è culminato nella pubblicazione di un libro che racconta la riscoperta di un microcosmo geografico, con uno sguardo etnografico, a partire dalle forme dell’abitare, dell’occupare la natura, del fare comunità, economia, paese.

Come molte altre aree marginali d’Italia, anche la Slavia friulana ha subito il fenomeno dello spopolamento. Nel decennio tra il 1960 e il 1970 ben 42 borghi sono rimasti abbandonati, parte di un trend nazionale che ha diffuso sempre più la percezione della montagna come luogo di solitudine e di fatica. Oggi, lo spopolamento sembra essersi arrestato e, in particolare nelle Valli del Natisone (Nediške doline, in sloveno) si registra un’inversione di tendenza.

Slavia friulana, molte lingue, un confine

La struttura linguistica del Friuli-Venezia Giulia è molto complessa ed è unica nel suo genere. Qui si incontrano lingue latine, slave e germaniche, eredità di un passato che ha visto queste popolazioni vivere le une a fianco alle altre. Questa particolarità rende il Friuli-Venezia Giulia l’unica regione in Europa dove vengono utilizzate ben quattro lingue ufficiali: l’italiano, lo sloveno, il friulano e il tedesco. Dal punto di vista linguistico, la Slavia friulana costituisce una “particolarità nella particolarità”, dove sopravvivono in uso alcuni dialetti sloveni. Grazie alle memorie e alle antiche tradizioni, questo patrimonio, per quanto debole e assopito, è ancora presente.

«Per chi abita in questi luoghi, il confine spesso viene visto solo come una seccatura, per semplici motivi pratici o burocratici», racconta Davide Degano, che nella Slavia friulana ha le sue radici, «questa multiculturalità secolare sfocia in una connessione molto profonda con il territorio, quasi inconscia. Si tratta di realtà molto fragili ma che sono riuscite a resistere nel tempo. Specialmente nelle Valli del Natisone, le vecchie generazioni hanno lottato per mantenere in vita la loro matrice slovena e le nuove generazioni l’hanno accolta e abbracciata. Le vicende passate e il presente della Slavia friulana possono essere una fonte d’ispirazione per altri territori solcati da un confine».

Che cosa è, oggi, la Slavia friulana? A quali vocazioni risponde?

Nel 1866, al termine della terza guerra d’indipendenza, i territori della Slavia friuliana entrarono a far parte del Regno d’Italia. A nord dei paesi montani c’erano i pascoli e i boschi che si estendevano oltre il passo di Sant’Antonio, detto Uorh, e oltre la valle della Rouna, che arriva fino al confine con la Slovenia. Questa valle era solitamente popolata durante i mesi estivi. Intorno al 1850, si iniziarono a costruire i primi stavoli per il ricovero degli animali. Tuttavia, molte famiglie vi si trasferirono durante l’estate, per evitare lunghe camminate di rientro, massimizzando così la produzione, le energie e il tempo. Oggi questa valle ospita la “Festa del Partito Comunista Italiano”, tradizionale appuntamento per tutti gli abitanti di questi paesi, dove le generazioni più anziane ricordano le gesta dei partigiani contro le truppe fasciste e la conseguente liberazione del territorio. Questa festa nasce infatti da un gruppo di partigiani comunisti facenti parte della formazione partigiana garibaldina di Faedis. Proprio sul Piano delle Farcadizze si costituirono le prime formazioni partigiane garibaldine del comune. Si racconta che questi amici, anche finita la guerra, continuarono a incrociarsi su queste montagne e che uno di loro, prima di morire, lasciò scritto la volontà che le generazioni future continuassero questa tradizione. Non siamo sicuri se tale storia sia veritiera oppure no, ma da quel momento in poi, la festa del Partito Comunista si è svolta ogni anno. Fabio Topatigh, Piano delle Farcadizze, a poca distanza dall’abitato di Canebola, frazione del comune di Faedis (UD). Agosto 2019.
Sin dai tempi dei Longobardi, le tribù slave si erano insediate sulla cintura montuosa delle Prealpi Giulie. Erano comunità che si dedicavano principalmente all’allevamento di pecore, capre e bovini. Lana e formaggio venivano prodotti in gran quantità ed erano elementi chiave per il commercio con i friulani di fondovalle, in cambio di vino, cereali e sale. Casa di privato. Canebola (UD). Febbraio 2020.
Una delle prime Mappe del territorio. Risale al 1700, prima dell’invasione dell’impero napoleonico. Casa di privato. Canebola (UD). Gennaio 2020.
Lettere da e per emigranti. All’inizio del XX secolo i primi migranti lasciarono il paese, alcuni verso i paesi d’oltreoceano, altri verso l’Europa. Le guerre interruppero brevemente questo flusso migratorio, che riprese subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. I villaggi di montagna della Slavia friulana si svuotarono quasi del tutto. Tra le destinazioni più frequenti c’erano l’Argentina, il Brasile, il Canada e l’Australia. Quanti si trasferirono all’estero, raramente tornarono. In generale, l’emigrazione oltreoceano riguardava interi nuclei familiari. Al contempo, il flusso migratorio verso altri paesi europei riguardava i più giovani, che spesso tornavano durante l’estate o per le vacanze di Natale. Molti, una volta rientrati definitivamente in Italia, decisero di spostarsi a vivere in pianura, lasciando così abbandonate le case dei genitori e dei nonni. A partire dal 2001 si è registrata una leggera inversione di tendenza nel trend demografico di queste aree. I dati Istat riportano che dal 1950 al 2001, la popolazione nei borghi è diminuita di quasi duecentomila unità, mentre dal 2001 si è vista una leggera ripresa, con un saldo positivo pari a quasi 13.000 persone. Un esempio virtuoso in tal senso è Robedischis, il primo villaggio sloveno nelle Prealpi Giulie dopo il confine italiano, che ora è parte della municipalità di Caporetto. Lo spopolamento di questo piccolo borgo è stato quasi totale, tanto che nel 2005, erano solo sette i residenti fissi. Nel corso degli ultimi dieci anni, però, il governo sloveno ha promosso una serie di iniziative atte a favorire il ripopolamento dei borghi, tanto che la Slovenia conta ora una sola “città fantasma” nelle municipalità di Tolmino. Robedischis vede ora una popolazione fissa di circa 30 abitanti, la nascita di un agriturismo che vende solamente prodotti locali e di un bed and breakfast che attrae molti turisti nordeuropei appassionati di sport alpini. Borgo Stremiz (UD). Giugno 2020
Dino Sgiarovello è l’ultimo scalpellino rimasto nella Slavia friulana. «Sono emigrato in Svizzera, ma per me è stato un disastro. Quello che guadagnavo era subito speso, sai, non eravamo abituati a “comprare” cibo, in più c’erano molte distrazioni. Cose che non potresti nemmeno sognare qui. Sono tornato dopo pochi anni. Mi mancavano le montagne». Il fenomeno dell’emigrazione era favorito, in parte, dallo stesso Stato italiano. Venivano rilasciati molto facilmente passaporti alle persone richiedenti. La Svizzera, per esempio, aveva approfittato dell’apertura dei confini per sviluppare i settori industriale, dell’edilizia e dell’agricoltura. Lo Stato italiano, dal canto suo, riceveva dalla Svizzera un contributo per ogni persona emigrata. Il Belgio deve agli emigranti italiani la riapertura delle miniere di carbone: lo Stato italiano riceveva in cambio per ogni minatore una determinata quantità di carbone all’anno. «“Puoi lavorare in Italia o all’estero, ora c’è libertà di scelta”. Questo era lo slogan degli anni Sessanta, in risposta al grande fenomeno dell’emigrazione. La realtà dei fatti era completamente diversa. La lista d’attesa per un lavoro sicuro era di mesi se non di anni. Molti non sono mai stati chiamati, mentre molti altri non sono mai tornati. Le scelte politiche ed economiche dopo il 1976 [anno del grave terremoto che colpì il Friuli n.d.a.] sono state solo per opportunità di lavoro finalizzate alla ricostruzione. Ma tutto era concentrato in pianura, non c’era un piano per i montanari…». Costapiana, nei pressi di Canebola (UD). Giugno 2018.
Le cave della valle del Grivò rifornivano tutta la zona di pietra Piasentina (originariamente chiamata pietra Faedese, di Faedis). Verso l’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo nacque una vera e propria scuola di scalpellini, che divenne presto nota in tutta la regione. La pietra fu utilizzata non solo come elemento portante delle case ma anche per costruire attrezzi da lavoro e suppellettili. Venne scoperta in territorio faedese la cava Krokolčič, utilizzata per ottenere il materiale necessario per la costruzione di case e attrezzi. Le pietre venivano utilizzate anche nella costruzione di piccole conche d’acqua artificiali, ritenute fondamentali per abbeverare gli animali e per assicurare costanti riserve d’acqua. Con le pietre venivano costruiti muretti al fine di contenere la terra sui pendii e trasformarla in campi fertili. In questo modo gli agricoltori furono anche in grado di bloccare la crescita della boscaglia. Strada che porta a Clap (UD). Agosto 2019.
Il Carnevale (Pust) è da sempre una ricorrenza di origine pagana, un’usanza che simboleggiava l’arrivo del nuovo anno e serviva a propiziare ed esaltare il “risveglio” del terra. Questo è un rito basato su contrasti e antitesi: bello-brutto, buono-cattivo, vecchio-nuovo. Il carnevale è chiamato dalla gente del posto Pust, parola con la quale viene designata anche la maschera principale del carnevale, presente in tutte le sfilate. Pustje, Pustič, Pustiči, sono termini che indicano le maschere colorate che si vedono sfilare in questi paesi. Si tratta di maschere ricoperte di frange di stoffa di tutti i colori e sulla schiena o sui fianchi dei campanacci, che hanno il compito di risvegliare con il loro suono la montagna dal silenzio invernale. Ogni piccolo villaggio montano ha la sua maschera distintiva. A Montefosca le maschere si chiamano Blumarji. Il termine blumar deriva dalla parola tedesca Blumen che significa fiore e simboleggia la primavera. I Blumari sono vestiti completamente di bianco per rappresentare la neve; portano un alto cappello di paglia (klabuk) a forma di albero dal quale pendono ciuffi di nastri colorati. In mano tengono un bastone chiamato pištok e sulla schiena i caratteristici campanacci, legati con un particolare intreccio di corda. Ai piedi, sopra i calzini di lana grezza fatti a mano, indossano gli žeki neri, tipiche calzature locali. Il gruppo di Blumarji, che dovrebbe essere di numero dispari, corre per i villaggi, per fermarsi di tanto in tanto formando un cerchio e iniziare a saltare come in un’antica danza rituale. Lungo il percorso, le donne del villaggio offrono bevande, in modo che la corsa di Blumarji possa essere sempre costante e vivace. I Blumarji di Montefosca (UD), Carnevale. Fine febbraio 2020.
Ponte di Napoleone, Robedischis, frazione del comune di Caporetto (Kobarid in sloveno, Cjaurêt in friulano), in Slovenia. Il ponte fu fatto costruire da Napoleone come collegamento strategico tra Austria, Italia e Slovenia. Questo collegamento era importantissimo dal punto di vista militare ed economico per il trasporto delle merci. Ora è un’attrazione per i turisti, soprattutto tedeschi e austriaci, e una meta per rinfrescarsi nelle calde giornate estive. Luglio 2020.
Monumento dedicato al Corpo degli Alpini nella Piana delle Farcadizze, poco sopra all’abitato di Canebola, in comune di Faedis (UD). La strada conduce alla chiesetta delle Farcadizze.
All’inizio, le famiglie che abitavano queste montagne (sia sul lato italiano che sloveno) parlavano solo sloveno e, una volta raggiunta l’età scolare, bambini e bambine stentavano a comunicare in italiano con gli insegnanti. Allo stesso tempo, anche il personale insegnante dovette accostarsi a una realtà completamente diversa da quella di pianura. In questo contesto, era il prete che fungeva da collegamento e aiutava le persone a parlare un italiano più corretto, insegnando loro canti e preghiere. Per chi voleva proseguire gli studi dopo le elementari, le difficoltà erano enormi. Non c’erano ancora strade che collegavano la pianura alla montagna, e tutte le famiglie erano in condizioni economiche precarie. Così, una volta terminate le elementari, era molto comune che ragazze e ragazzi si dedicassero al lavoro. Scorcio strada Porzus, nel comune di Attimis (UD). Settembre 2019
Igor, uno dei 7 abitanti di Robedischis, il primo villaggio sloveno dopo il confine. È il proprietario dell’unico agriturismo, conosciuto localmente per il suo formaggio di capra, la cui produzione però è stata interrotta a causa del continuo aumento delle tasse. «Questo paese era sotto l’Italia fino a quando Tito ha preso il controllo. Volevamo essere sloveni. Molti, tuttavia, hanno cambiato idea perché non gradivano le politiche di Tito, quindi se ne sono andati. Ero e sono tuttora felice della decisione che abbiamo preso». Durante gli anni del regime fascista, fu vietato ogni uso pubblico e religioso della lingua slovena e della lingua friulana. A questa proibizione si opposero i sacerdoti sloveni che si appellarono all’arcivescovo di Udine e al Vaticano, ma senza risultati. Alcuni di essi continuarono a predicare nella lingua locale, per questo furono minacciati di confino. La rappresentazione letteraria più nota della resistenza all’imposizione fascista fu scritta nel 1938 dall’autore sloveno France Bevk, nel suo romanzo “Il cappellano Martin Čedermac”. Robedischis, nel comune di Caporetto, in Slovenia. Febbraio 2018.
L’occupazione slava avvenne sulle basi di una precisa organizzazione, basata su valori morali molto forti, improntati sul principio di comunità, e a ogni famiglia fu affidata una parte del territorio da bonificare. Non tutti gli slavi provenivano dagli stessi territori. Ciò si tradusse in alcune differenze tra le lingue parlate, che persistono tutt’oggi. In questa terra si coltivano mais, patate, fagioli, cavoli e rape, ma anche ciliegie, mele e prugne. Alla fine dell’XIX secolo iniziò anche la produzione di carbone di legna. Uomini e donne trascorrevano giornate nei boschi a preparare la legna e poi, durante la notte, supervisionavano la cottura del carbone, che veniva poi trasportato in pianura per la vendita. Silvano Sgiarovello. Gradischiutta, provincia di Udine. La strada che conduce a Canebola, verso il confine con la Slovenia. Giugno 2019.
Un tricolore disegnato da un privato, su una pietra. Sopra Canebola (UD), a pochi passi dal confine tra Italia e Slovenia. Maggio 2017.

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  • Davide Degano

    Davide Degano è un fotografo diplomato alla Royal Academy of Art (KABK) de L’Aia. I suoi lavori sono stati pubblicati da Vogue, Urbanautica, British Journal of Photography, ItsNiceThat, The Photographic Journal, e Icon Magazine. Nel 2021 ha pubblicato Sclavanie, pubblicato da Penisola Edizioni.
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