Dinosauri in vendita

Come si ricostruisce (e vende) lo scheletro di un enorme triceratopo? A Trieste, una piccola azienda collabora con le università per ricomporre fossili di dinosauri, per i quali c’è un mercato nascente.

8 minuti | 21 Luglio 2023

Quasi tre metri di lunghezza per due di larghezza. Il cranio di Big John è davvero enorme. È talmente grande che diventa il fulcro della storia che ruota attorno a questo Triceratops horridus vissuto circa 66 milioni di anni fa: non ne era mai stato rinvenuto uno di simili dimensioni. Il geologo Walter Stein, che scoprì lo scheletro in un ranch del South Dakota nel 2015, aveva capito di trovarsi di fronte ai fossili di un esemplare maestoso (l’appellativo big fu quanto mai appropriato). Ma non immaginava che potesse essere il più grande di tutti.

Questo record, scoperto solo dopo la cessione di Big John, ha fatto la fortuna dell’azienda triestina Zoic, che ha potuto acquistare il maestoso triceratopo a un prezzo “accessibile”. L’obiettivo? Ricostruire lo scheletro, ossia ricomporlo, trovare le parti mancanti e sostituirle, per poi rivenderlo a un’asta internazionale. 

 

Un mercato inaspettato

«Cosa fai?»
«Sono un geologo».
«E di cosa ti occupi di preciso?»
«Creo scheletri di dinosauri e poi li vendo».
«Ma in che senso? Dinosauri di plastica?»
«No no, scheletri veri e propri».
«E dove li trovi? Ma si può fare un lavoro del genere?»
«Lo faccio da 40 anni. Evidentemente sì. Si può fare».

Questo stralcio proviene da una conversazione tipica tra Flavio Bacchia, fondatore della Zoic, e i curiosi che vogliono sapere qualcosa in più sul suo lavoro. Chi, in fondo, ha mai pensato che ci fosse un mercato in cui i dinosauri si possono comprare e rivendere con tanta facilità? Che poi, a ben pensarci, è qualcosa che potrebbe far storcere un po’ il naso. «C’è una percezione un po’ stereotipata del rapporto tra pubblico e privato e tra accademia e aziende, compreso l’ambito paleontologico» spiega Davide Ludovisi, giornalista e regista.

Insieme a Dorino Minigutti, Ludovisi ha raccontato la storia di Big John in un omonimo documentario. «Se ci limitassimo a considerare unicità degli oggetti ed esposizione nei musei, la casistica non sarebbe molto diversa da quella di una qualunque azienda privata che restaura opere d’arte e poi le vende. Tuttavia, quando si parla di fossili che implicano un legame con un essere un tempo vivente, osserviamo una sensibilità emotiva diversa». 

Trattandosi di una realtà che si muove con scopo di lucro, inoltre, può essere mal vista anche dagli enti pubblici che gravitano attorno al mondo della paleontologia. Eppure musei e università apprezzano il lavoro della Zoic perché fornisce delle conoscenze fondamentali. La conferma arriva dallo stesso lavoro di restauro di Big John, svolto in collaborazione con l’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’università di Bologna e il Laboratorio di Paleopatologia dell’Università di Chieti. Questa attività ha portato anche alla pubblicazione di un articolo su Scientific Reports.

big john

Alcuni tecnici sistemano una delle zampe posteriori dello scheletro, cercando di capire la postura dell’animale. Frame tratto dal documentario “Big John” di Dorino Minigutti e Davide Ludovisi.

Ricomporre lo scheletro di Big John

Big John giunge a Trieste in una decina di casse che contengono dei grandi “fagioli” bianchi, che non sono altro che camicie di gesso dove vengono inglobate le ossa del triceratopo. Del contenuto delle casse, però, c’è solo un’indicazione di massima, e dello scheletro di Big John mancano alcuni pezzi.

«Per quanto un dinosauro sia conosciuto, c’è sempre qualcosa che non corrisponde a quanto scoperto finora.»

Ma come si ricompongono le parti mancanti? «Esistono varie tecniche» spiega Flavio Bacchia nel documentario (disponibile in streaming sulla piattaforma Chili). «Di solito si possono utilizzare delle repliche di un dinosauro già esistente ma, trattandosi di un esemplare molto grande, è più complicato. Altrimenti, i pezzi vengono scolpiti ex novo, anche se per Big John non c’era abbastanza tempo. Oppure, ancora, viene fatta la scansione di un modello più piccolo che in seguito viene ingrandita digitalmente, seguita da una stampa a termopolimeri del pezzo mancante».

Mentre confronta alcuni particolari del disegno dello scheletro di un triceratopo con una vertebra di Big John – che sembra più piccola di quanto dovrebbe essere – Flavio Bacchia racconta: «Questa è la dimostrazione che, per quanto un dinosauro sia conosciuto, c’è sempre qualcosa che non corrisponde a quanto scoperto finora». 

Nuove scoperte

Durante il lavoro di restauro, però, un dettaglio spicca sugli altri: un foro delle dimensioni di una mano aperta, presente sulla parte bassa del vistoso collare osseo del dinosauro, vicino al corno destro. È forse la conseguenza di un violento combattimento con un predatore? O magari con un altro triceratopo? Il team di Zoic cerca le risposte a queste domande insieme ai ricercatori dell’Università di Chieti.

«Avendo vissuto solo per qualche decennio, a cui però sono seguiti più di 60 milioni di anni, è più probabile che il foro si sia formato nell’arco di tempo più ampio, ossia dopo la morte dell’animale» spiegano i ricercatori. Eppure, la presenza di osso spugnoso sui margini della lesione fa pensare a una forma di rimodellamento osseo avvenuta prima della morte. L’esame istologico lo conferma: Big John era ancora in vita quando subì la lesione. 

Ma non è tutto. Infatti, il team conclude che le caratteristiche del foro sono compatibili con un colpo, arrivato da dietro e sferrato procedendo dal basso verso l’alto, inferto dal corno di un altro triceratopo. La scoperta sembra avvalorare la teoria secondo la quale i triceratopi combattessero tra di loro più spesso di quanto si pensasse, e sicuramente più spesso di quanto avvenisse con predatori come il T-Rex. Negli suoi ultimi giorni di vita, dunque, Big John potrebbe aver subito un trauma inferto da un altro triceratopo, a cui è seguito un processo infiammatorio che ha causato la morte dell’animale.

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Un lavoro da ammirare

«La mia esperienza e professionalità mi portano a cercare di rendere disponibili i dinosauri a un pubblico non di compratori, ma di persone che si emozionano, come i bambini» racconta Flavio Bacchia. «Quando riesco espongo gli animali, anche in fase di lavorazione, in modo tale che si possa seguire il lavoro che porta il dinosauro a uscire dalle casse e arrivare finito, completo. La soddisfazione è impagabile». E così organizza delle giornate in cui, all’interno dei capannoni della Zoic, si può assistere ai lavori di restauro di Big John. 

«Vivere passo dopo passo i momenti che hanno portato alla sua rinascita è un’esperienza unica».

Bambini e intere scolaresche seguono i processi che, un pezzo alla volta, porteranno le decine e decine di ossa ad assumere le sembianze di un vero e proprio dinosauro. Inoltre, per raggiungere un pubblico ancora più vasto, una volta completato lo scheletro si pensa di esporre Big John al centro della piazza principale di Trieste. «Se a Wall Street hanno il toro, a piazza Unità ci sarà il triceratopo» si sente nel documentario finanziato, tra gli altri, dal Ministero della Cultura.

Ed è proprio la posa iconica del Charging Bull di Wall Street che ispira la posizione in carica dello scheletro di Big John: una figura che la gente riconosca immediatamente, già presente nell’immaginario collettivo, e che faccia in modo che il primo impatto sia viscerale e permetta di entrare in contatto diretto col dinosauro. Il risultato, con Big John che si erge su un piedistallo al centro di piazza Unità, è stupefacente.

«La cosa che ha colpito noi – e penso anche il pubblico – è poter vedere materializzarsi via via un animale vero e proprio, quasi senza accorgercene, seguendo le vicende umane dei protagonisti umani» spiega Davide Ludovisi raccontando la sua esperienza come co-autore del documentario, in cui ha seguito il lavoro allo scheletro di Big John. «Vedere lo scheletro così maestoso che appartiene a un mondo così diverso e distante è già emozionante di per sé, ma vivere passo dopo passo i momenti che hanno portato alla sua rinascita è un’esperienza unica».

big john

Il teschio del triceratopo Big John durante una delle fasi del montaggio preparatorio. Frame tratto dal documentario “Big John” di Dorino Minigutti e Davide Ludovisi.

Un mix di arte, scienza e marketing

«Per poter rendere appetibili i fossili a livello internazionale bisogna muoversi in un mix di arte, scienza, business e marketing, rispettando quelli che sono gli spunti emozionali dei clienti» spiega Flavio Bacchia. Ma, per poter essere piazzato sul mercato, lo scheletro di un dinosauro deve possedere determinate caratteristiche; una di queste riguarda la percentuale di ossa originali. La versione restaurata e definitiva di Big John possiede oltre il 60% di ossa originali e così accede al mercato delle aste internazionali approdando a Parigi, presso la casa d’aste Drouot. 

Questo enorme bestione di 8 metri, con corna di più di un metro di lunghezza e un peso che supera la tonnellata, viene battuto all’asta per la cifra record di 6,6 milioni di euro, facendo breccia nel cuore dell’imprenditore di origine indiana Siddhartha Pagidipati. «Le emozioni di un potenziale compratore fanno sì che il bene non abbia più un prezzo» spiega Bacchia. 

E come ogni bella storia che si rispetti c’è anche il lieto fine. Pagidipati, infatti, è un filantropo, e invece di tenere Big John tutto per sé lo dona al Glazer Children’s Museum di Tampa, in Florida. Cliff, altro immenso triceratopo restaurato dalla Zoic ora esposto al Boston Museum of Science, aveva seguito un percorso simile. 

Quell’enorme cranio che, una volta completato, non si riusciva in alcun modo a far uscire dalle porte del capannone di restauro, ora può essere ammirato da piccoli e grandi fan provenienti da tutto il mondo. A Trieste, nel frattempo, si domandano se il prossimo dinosauro della Zoic sarà ancora più grande di Big John. Voci di corridoio assicurano che qualcosa di “grosso” si sta muovendo in cantiere. Anche se non proprio in senso letterale.

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  • Mattia Maccarone

    Mattia Maccarone è un giornalista scientifico specializzato in neurobiologia. Collabora come autore per Mind e Le Scienze ed è Content Manager di una tech company. È docente al Master in comunicazione della scienza dell’Università Vita-Salute San Raffaele.

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