L’industria del fossile ci costa più di 12 miliardi in danni per la salute e l’ambiente

In Italia, il settore dei combustibili fossili è il primo per danni sociali: i dati della EEA calcolano l’impatto sulla salute delle persone e sull’ambiente.

5 minuti | 15 Dicembre 2023

Illustrazioni di Eliana Odelli

Questa inchiesta è parte di una collaborazione tra RADAR Magazine e CORRECTIV.Europe, una rete per il giornalismo locale che pubblica lavori d’inchiesta e data-driven assieme a testate locali in tutta Europa. CORRECTIV.Europe è parte di CORRECTIV, testata di giornalismo d’inchiesta no-profit finanziata dalle donazioni. Scopri di più su correctiv.org/en/europe/.

Leggi i risultati dell’inchiesta in Germania, Ungheria e Polonia.

La centrale elettrica Enel di Torrevaldaliga Nord, a Civitavecchia, è una delle sette centrali a carbone in Italia. Secondo i piani di phase out del carbone contenuti nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), approvato dal governo Conte nel 2020, la centrale di Torrevaldaliga Nord e le altre avrebbero dovuto chiudere nel 2025. Ma con l’invasione russa dell’Ucraina e le incertezze sulle scorte di gas, le mari carboniere sono tornate al porto di Civitavecchia con il ritmo passato. Alimentando, oltre che la produzione di energia, anche la produzione di enormi quantità di inquinanti dell’aria: ossidi di azoto e zolfo, che una volta in atmosfera formano il particolato, ma soprattutto gas serra che causano il cambiamento climatico. 

In base alle sue emissioni inquinanti in un anno (il 2017), la centrale di Torrevaldaliga Nord figura come l’impianto industriale italiano che causa maggiori danni alla società. L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) ha calcolato che ammontino a più di 1 miliardo di euro l’anno, un calcolo basato sugli anni persi a causa delle morti premature causate dall’inquinamento atmosferico e (per i gas serra) sul costo per l’abbattimento delle emissioni di carbonio.

Ma la centrale di Civitavecchia è in buona compagnia. Nella lista dei primi 200 impianti industriali italiani che causano maggiori danni alla società, secondo la stima della EEA, ci 73 sono centrali termoelettriche. I luoghi sono noti, almeno da chi ci abita vicino: Brindisi, Taranto, Sassari, Fusina. Il secondo settore industriale più impattante ha, di nuovo, a che fare con i combustibili fossili: è quello delle raffinerie di petrolio e gas.

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Come si calcola l’ammontare dei danni di un impianto industriale

Per stimare l’ammontare  dei danni di un impianto industriale i ricercatori della EEA hanno messo a punto una complessa metodologia. Grazie a un modello matematico, si valutano la dispersione e la chimica atmosferica degli inquinanti dell’aria. Ciò consente di capire come gli inquinanti si trasformano nell’atmosfera, e come raggiungono località distanti dal luogo di emissione. I ricercatori combinano poi questi calcoli con la densità di popolazione e altri dati per stimare l’esposizione delle persone agli inquinanti. E con i dati di incidenza di base di alcuni problemi di salute, che vengono aggravati dall’inquinamento atmosferico causato dall’industria, per capire se e come l’incidenza aumenta. 

I valori indicati nel grafico qui sopra sono calcolati sulla base degli anni di vita persi a causa di morti premature causate dall’inquinamento atmosferico (un indicatore detto VOLY). Ciò implica, quindi, assegnare un costo monetario agli impatti sulla salute umana. Nel calcolo finale, sono fattori rilevanti anche l’età della popolazione a rischio e le fasce d’età più colpite da questi inquinanti.

Per calcolare i danni causati dai gas serra, la metodologia è diversa. Si stima il costo di abbattimento delle emissioni di carbonio necessario per rispettare l’Accordo di Parigi, in particolare l’obiettivo di contenere l’aumento del riscaldamento globale entro 1,5 °C rispetto alle temperature preindustriali. 

 

Perché le centrali termoelettriche hanno un impatto sulla salute così alto

In Italia, la maggior parte dell’energia elettrica è ancora prodotta in centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili. Nel 2022, ne abbiamo prodotto quasi il 47% dalla combustione di gas e il 9% dal carbone. 

Le centrali a carbone sono tra le più inquinanti: emettono quantità elevate di ossidi di azoto e zolfo, sostanze che una volta disperse in atmosfera contribuiscono alla formazione del particolato (PM). Proprio il particolato è l’inquinante più importante in termini di potenziali danni alla salute umana. Le particelle fini penetrano nel sistema respiratorio e cardiovascolare e possono causare o aggravare malattie, oltre a provocare tumori. 

Il PM primario è quello emesso direttamente nell’atmosfera (dagli impianti industriali, ma anche dai trasporti e dalle caldaie domestiche), mentre il PM secondario deriva da inquinanti precursori quali i composti organici volatili (VOC), il metano (CH4), il monossido di carbonio (CO) e gli ossidi di azoto (NOx, cioè NO e NO2).

Durante il processo di combustione le centrali a carbone rilasciano nell’atmosfera i già citati ossidi di zolfo (SOX), tra cui il biossido di zolfo (SO2) che è uno degli inquinanti più aggressivi e pericolosi perché contribuisce al fenomeno delle piogge acide. Ma elevate concentrazioni di SO2 possono influire anche sulla funzionalità delle vie aeree e infiammare il tratto respiratorio. 

Gli ossidi di azoto (NOX) invece contribuiscono all’acidificazione e all’eutrofizzazione delle acque e dei suoli e possono portare alla formazione di particolato e ozono troposferico. Inoltre, elevate concentrazioni di NO2 possono causare infiammazioni delle vie aeree e riduzione della funzionalità polmonare. 

Le centrali elettriche che funzionano a gas naturale non producono particolato o biossido di zolfo, ma immettono in atmosfera ossidi di azoto e gas serra, con ripercussioni sul clima globale.

 

Dove vengono prodotti più gas serra industriali in Italia

Dal settore industriale oggi derivano circa il 30% delle emissioni globali di gas serra. In Italia i settori più emissivi, dai dati EEA, sono il già citato settore energetico, la produzione del cemento e di acciaio, l’industria chimica, la gestione dei rifiuti (che include anche l’incenerimento) e gli allevamenti, ma anche la lavorazione della carta e del legno.

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La mappa qui sopra mostra le aree geografiche italiane in cui vengono emessi più gas serra da grandi impianti industriali (non sono incluse le emissioni di metano che derivano dagli allevamenti bovini). I dati provengono dallo European Industrial Emission Portal (della EEA), che monitora le emissioni di inquinanti del settore industriale. La mappa non mostra la totalità delle emissioni, ma solo quelle degli impianti che superano i valori limite definiti dalla EEA. L’ente stima che i siti industriali inclusi in questo database siano responsabili di circa il 20% dell’inquinamento atmosferico in Europa. 

 

Cosa può fare il settore industriale per ridurre le emissioni

Ridurre le emissioni del settore industriale è un problema complesso, per il quale non esiste una soluzione semplice. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, le aziende devono adottare un approccio sistemico e combinare l’impegno per l’efficienza energetica a quello verso la decarbonizzazione, cioè il passaggio da fonti fossili a fonti a basse emissioni. 

Per le centrali termoelettriche, i maggiori emettitori, decarbonizzare significa passare alle fonti rinnovabili. E dunque, la chiusura delle centrali e la creazione di parchi fotovoltaici ed eolici, con ricadute positive sulla salute delle persone e sull’ambiente – ma serve un approccio realistico, che tenga conto di come reimpiegare nelle nuove strutture i lavoratori del settore dei combustibili fossili.

Un altro fattore chiave per ridurre le emissioni il miglioramento dell’efficienza produttiva. Negli ultimi decenni l’industria ha ridotto le proprie emissioni di gas serra in tutta Europa, grazie anche a norme più stringenti che hanno imposto significative riduzioni delle emissioni legate ai processi (per esempio, la riduzione di N2O nella produzione di ammoniaca) e al miglioramento dell’efficienza energetica. 

Ma senza la diffusione su larga scala di tecnologie net zero, per portare in pari il bilancio tra la quantità di gas a effetto serra rilasciata nell’atmosfera con la quantità rimossa, tagliare drasticamente le emissioni sarà impossibile. La EEA ipotizza che per alcuni processi industriali (come la produzione di cemento), la cattura e lo stoccaggio del carbonio potrebbe rappresentare una parte della soluzione in futuro, anche se per il momento non ci sono ancora esempi su larga scala di queste tecnologie. 

 

Nell’ultimo decennio la situazione è migliorata

Nonostante i rischi sanitari e ambientali siano ancora alti, negli ultimi dieci anni gli impatti negativi delle emissioni industriali sono diminuiti in modo considerevole. Questo è stato possibile non solo grazie alla riduzione delle emissioni, ma anche perché alcuni degli impianti più inquinanti sono stati chiusi e sostituiti da altri meno inquinanti. 

Prendiamo per esempio il settore della produzione di energia: dal 2005 ad oggi le emissioni in Europa sono diminuite di circa il 40%. Parte del motivo è il passaggio dal carbone al gas naturale, una fonte fossile a minore intensità di carbonio. Il fattore principale è stato però la sostituzione dei combustibili fossili con le energie rinnovabili. Infatti, secondo un’analisi condotta dagli esperti dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, senza la diffusione delle energie rinnovabili nel 2021 le emissioni di gas serra del settore della produzione di energia sarebbero state superiori di quasi il 50% rispetto a quelle effettive.

Anche il settore industriale è riuscito a ridurre le emissioni di gas serra: tra il 2005 e il 2021 c’è stata una diminuzione del 23%. Il ritmo più lento è da attribuire ai costi più elevati associati alla riduzione delle emissioni di gas serra nei processi industriali, che superano quelli di altri settori. Inoltre, ad oggi alcuni settori industriali hanno a disposizione un minor numero di tecnologie a zero emissioni che sono pronte per essere adottate su larga scala.

LEGGI ANCHE: Bandiere blu, acque nere: i problemi del depuratore di Lignano Sabbiadoro

 

Il ruolo della politica a favore di un’economia a basse emissioni

Nonostante gli importanti passi avanti, il settore dell’energia continua a essere quello che genera più esternalità negative, cioè i costi non intenzionali di un’attività (come i rifiuti di una fabbrica o le emissioni di una centrale elettrica), che ricadono terzi o sulla società in generale. È un settore in cui i cambiamenti sono lunghi e complessi, perché richiedono ingenti investimenti e ne dipendono le altre attività di un paese. 

Per questi motivi l’Unione Europea negli ultimi anni ha messo in campo strategie ambiziose per sostenere il cambiamento graduale a favore di tecnologie a zero emissioni. È il caso della Direttiva sulle emissioni industriali (IED), che riguarda anche direttamente gli impianti inclusi nello studio condotto dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (e i dati nei grafici in questo articolo). Questa direttiva stabilisce che i grandi stabilimenti industriali debbano essere coperti da un’autorizzazione ambientale integrata che includa le emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo, nonché la gestione dei rifiuti.

Le condizioni di autorizzazione nell’UE devono essere basate sulle cosiddette Migliori Tecniche Disponibili (o BAT, per Best Available Techniques), che vengono determinate in un processo scambio di informazioni con la partecipazione della Commissione europea, dei rappresentati degli Stati membri, dell’industria, degli istituti di ricerca e delle ONG. Tra i risultati più importanti di questa direttiva – che risale al 2021 – c’è quello di aver reso omogeneo il livello di riduzione delle emissioni degli Stati membri (un indicatore che, nei decenni scorsi, divideva nettamente in due l’Unione).

Ha l’obiettivo di incentivare la riduzione delle emissioni anche la Direttiva EU ETS per l’Emission Trading System europeo, oggi il maggiore mercato di crediti di carbonio al mondo. La direttiva stabilisce un tetto alle emissioni di gas serra per vari settori industriali, assegnando quote che le aziende possono scambiare tra loro. Imporre un costo all’inquinamento, nelle intenzioni della direttiva, favorisce la riduzione delle emissioni.

 

Superare la dipendenza dai combustibili fossili

Per il settore che porta più danni alla salute e all’ambiente, quello della produzione di energia, gli stessi effetti del cambiamento climatico dovrebbero essere una spinta ulteriore alla decarbonizzazione. Eventi estremi più frequenti e intensi, come la crisi idrica che ha colpito l’Europa negli ultimi due anni, mettono a rischio anche il funzionamento delle centrali termoelettriche. 

Oggi il settore energetico preleva circa il 10% dell’acqua dolce usata globalmente. L’estrazione stessa dei combustibili fossili richiede molta acqua. Le centrali spesso ne usano grandi quantità per i sistemi di raffreddamento. Dipendono poi dalla disponibilità d’acqua per il trasporto dei combustibili (in particolare nel resto d’Europa, dove molte centrali sorgono lungo i grandi fiumi navigabili). Nel 2022, la siccità ha ridotto anche la possibilità di produrre energia idroelettrica, lasciando i paesi che hanno ancora una scarsa dotazione di impianti eolici e solari a puntare di nuovo su un combustibile inquinante come il carbone – come è successo in Italia. 

Gli abitanti di Civitavecchia temono che la centrale di Torrevaldaliga Nord continui a bruciare carbone anche dopo il 2025. Come racconta il giornalista Angelo Mastandrea nel suo libro “Il vento spazza la polvere. Come liberarsi dal carbone”, grazie a una mobilitazione dal basso di cittadini, associazioni e sindacati, a Civitavecchia dovrebbe sorgere, al posto della centrale, un impianto eolico offshore. Con la guerra in Ucraina e la crisi energetica il piano, invece di accelerare, ha rallentato. 

Ma superare la nostra dipendenza dai combustibili fossili – transition away, come si legge nell’accordo faticosamente emerso in questi giorni dai negoziati alla COP28 – oltre a evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico ci farà anche evitare effetti a cascata sulla salute di tutti.

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    Anna Violato è editor e science writer, tra i fondatori di RADAR. Scrive per testate tra cui Nature Italy e Le Scienze, collabora con lo studio di comunicazione scientifica formicablu e con diverse case editrici italiane.
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