Come le scienze sociali possono cambiare il nostro approccio verso la fauna selvatica

Illustrazioni di Michela Cavagna
Gli incontri tra gli esseri umani e la fauna selvatica possono essere un rischio, sia per noi sia per gli animali. Studiare il comportamento dei visitatori nei parchi naturali può aiutare a ridurre i rischi e ad aumentare la consapevolezza delle persone.

5 minuti | 11 Dicembre 2020

Sappiamo bene che l’incontro con la fauna selvatica può rappresentare un rischio, sia per noi che per l’animale, ma in alcuni casi è difficile stabilire un confine da non superare. Un possibile aiuto arriva dalla cosiddetta human dimension, una branca delle scienze sociali applicate alla conservazione che studia l’attitudine presentata dai visitatori delle aree naturali. Già utilizzata in molti parchi del Nord America, è stata da poco introdotta in Italia da un gruppo di ricercatori dell’Università di Torino.

In Italia quasi un turista su due (il 42,5%, secondo le stime del Ministero dell’Ambiente) dichiara di desiderare una vacanza in un parco naturale. Le presenze turistiche legate alla natura hanno superato i 100 milioni nel 2014, con un aumento del 4% annuo. Sono numerose le attrazioni che portano turisti, sportivi o semplici curiosi a programmare una vacanza in un luogo naturale: dalla pubblicità ai social network, dal benessere indotto dallo svolgere attività all’aperto a una crescente sensibilità nei confronti dei temi ambientali e della natura.

Ma qual è l’approccio verso queste attività? Forse complice la sensazione di essere in vacanza, molte persone rinunciano a informarsi prima della partenza sulle caratteristiche del luogo che vanno a visitare. Facendo così perdono nozioni che, insieme a rendere più piacevole la permanenza, possono evitare danni sia a loro stessi, sia all’ambiente naturale.

Stambecco spaventato attacca cane di un escursionista: ecco come non comportarsi” è solo uno degli ultimi esempi di cronaca. Un tipico caso è quando le persone sottovalutano le distanze da mantenere dagli animali selvatici, finendo per scatenare reazioni di difesa o per essere accidentalmente lesi. Come nel recente caso delle kayakiste in California che, durante un’attività di whale watching, si sono avvicinate troppo alla zona in cui le megattere si stavano alimentando, finendo per essere erroneamente prese in bocca (e immediatamente liberate) dal cetaceo.

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Parallelamente ai danni che possono subire gli esseri umani, esistono quelli causati alla fauna selvatica e all’ambiente più o meno volontariamente. I danni all’ambiente vanno dall’abbandono di rifiuti al prelievo di sabbia, rocce e altri oggetti. Se queste azioni sono quasi sempre intenzionali, per quanto riguarda i danni alla fauna la distinzione non è così netta.

Per farci un’idea più precisa, pensiamo di fare una passeggiata in montagna e che casualmente questa avvenga nel periodo di maggior abbondanza di cibo per un determinato animale. La nostra presenza potrebbe indurlo a stare più riparato, evitando di farsi vedere e sentire da noi, abbreviando così il tempo che impiega per alimentarsi. In questo caso la nostra presenza avrà indirettamente abbassato le sue possibilità di nutrirsi in modo adeguato. Ciò rappresenta una forma di disturbo ed è per questo motivo che alcuni parchi limitano i sentieri e i percorsi disponibili ai turisti, soprattutto in alcuni periodi dell’anno.

Questa confidenza diventa abitudine, e l’abitudine provoca un sempre maggiore avvicinamento degli animali selvatici.

Più gravi sono i danni fisici che possiamo provocare agli animali, per esempio tramite la loro manipolazione. Soprattutto per quanto riguarda gli anfibi, questa pratica è molto pericolosa, in quanto potremmo rimuovere il muco sulla pelle che serve da protezione contro disidratazione e infezioni.

Pensiamo poi a quanti video abbiamo visto di animali selvatici chiedere cibo ai turisti e, alla fine, ottenerlo. Oltre a danneggiarli dal punto di vista della salute per via di cibi non adatti, ciò aumenta la loro confidenza nei confronti dell’essere umano. Questa confidenza diventa abitudine, e l’abitudine provoca un sempre maggiore avvicinamento degli animali selvatici alle strade, col conseguente rischio di incidenti. Il pericolo si estende ai paesi, dove aumentano le occasioni di incontro con l’uomo, e conseguentemente i conflitti, come nel caso degli orsi confidenti.

Ma come affrontare questo problema? Come aumentare la consapevolezza e l’informazione dei turisti? È qui che entra in gioco la human dimension. Nata per studiare caccia e pesca di frodo, col tempo è stata applicata all’introduzione di grandi carnivori, alla propensione a uscire dai sentieri e alla distanza da mantenere dalla fauna selvatica.

«Questi studi servono a capire sia che percezione hanno le persone della fauna selvatica, sia ad acquisire conoscenze su quanto le persone svolgono abitualmente alcune azioni, per esempio nutrire gli animali» spiega Jacopo Cerri, ricercatore in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino. «Queste conoscenze permettono poi di disegnare interventi gestionali come pannelli informativi mirati, che attivino nel fruitore norme sociali che lo inducano a un certo tipo di comportamento» continua Cerri.

Per quanto questo tipo di studi e le loro applicazioni siano comuni nei grandi parchi naturali di Stati Uniti e Canada, in Europa queste pratiche non vengono studiate. Cerri e i colleghi dell’Università di Torino hanno portato parte di questi studi nel Parco del Gran Paradiso, con uno studio pubblicato nel 2019. Spiega Cerri: «Abbiamo chiesto alle persone di valutare alcune foto che raffiguravano gruppi composti da uno a sei turisti a distanze variabili da uno stambecco. Lo scopo era sapere se queste foto avrebbero rilevato e misurato un set di norme sociali riguardanti la fauna. Il risultato è stato che la maggior parte delle persone ha indicato come accettabile un gruppo di 3 turisti a una distanza di 25 metri dall’animale».

Come precisato dall’autore, si tratta di uno studio preliminare ma dai risvolti pratici importanti. Risultati come questo potrebbero infatti tradursi nella stesura di pannelli informativi che ricordino ai turisti che la maggior parte dei visitatori ritiene che questa sia la distanza opportuna. Attivando così una norma sociale.

Sarà questa la soluzione al problema? «Ovviamente non è l’unica, il comportamento delle persone è composto anche da una parte indipendente, che non risente di norme sociali, quindi per ottenere un comportamento corretto dalla maggior parte delle persone occorre sinergia tra un sistema normativo che allinei questo comportamento verso il rispetto della norma, un sistema di controllo e sanzione efficace e l’informazione», conclude Cerri.

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  • Giada Padovani

    Giada Padovani ha studiato Biodiversità ed evoluzione all’Università di Bologna. Si occupa di biodiversità e di conservazione.
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  • Michela Cavagna

    Michela Cavagna è architetto, artista, illustratrice. Il suo lavoro spazia dall’immaginario infantile alla ricerca tessile applicata all’arte e al design.
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