Un’epidemia che non conosce confini: a livello globale nel 2014 gli adulti sovrappeso erano 1,9 miliardi, quasi cinque volte di più di quelli sottopeso. Sebbene la denutrizione rimanga tuttora la causa di quasi la metà delle morti nei bambini sotto i cinque anni, allo stesso tempo si osserva nei Paesi a basso e medio reddito un aumento dell’obesità infantile, che cresce molto più rapidamente che nelle nazioni ricche. Otto delle venti nazioni in cui i tassi di obesità stanno aumentando più velocemente si trovano in Africa. Nel Burkina Faso la prevalenza dell’obesità negli adulti è aumentata del 1400% negli ultimi quarant’anni. In Ghana, Etiopia e Benin del 500%. Si tratta di una vera e propria emergenza che, sospinta da una crescita economica sbilanciata, ha finito per stravolgere ogni aspetto delle società, arrivando a modificare il fisico delle persone.
Secondo le stime dell’Imperial College di Londra, dal 1980 al 2014 la prevalenza del diabete nel continente africano è pressoché raddoppiata.
L’Organizzazione mondiale della Sanità parla di doppio onere della malnutrizione: nella stessa popolazione, nella stessa famiglia e anche nella stessa persona possono coesistere sovrappeso o sottopeso e deficit nutrizionali. Nelle isole Figi, in Papua Nuova Guinea e a Vanuatu, problemi alla tiroide causati dalla carenza di iodio sono endemici. In molte isole del Pacifico sono frequenti i deficit di ferro, con conseguenti casi di anemia nelle donne incinte e nei bambini, nonché di vitamina A, con possibili conseguenze per la vista. L’obesità, poi, è correlata a malattie quali il diabete, l’ipertensione, le malattie cardiovascolari, come ictus e infarto, e a un maggior rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori. Nella regione del Pacifico si registrano i più alti tassi di diabete di tipo 2 del mondo: nell’isola di Samoa il 47% della popolazione è affetto dalla patologia, contro il 13 per cento degli statunitensi. Secondo le stime dell’Imperial College di Londra, dal 1980 al 2014 la prevalenza del diabete nel continente africano è pressoché raddoppiata.

La causa di questa pandemia è il cambiamento dello stile di vita. I mestieri tradizionali quali la pesca, la caccia, l’agricoltura, che richiedevano un notevole sforzo fisico, sono sempre più spesso abbandonati in favore di lavori sedentari. La diffusione dei mezzi di trasporto moderni ha ridotto ulteriormente l’attività fisica. A questi si associano l’abbandono della dieta tradizionale, ricca in pesce, cereali integrali, legumi, a favore di cibi altamente processati, bevande zuccherine e alcol. Ricerche condotte nelle isole del Pacifico hanno rilevato che oltre metà delle calorie consumate quotidianamente derivano da grassi (l’OMS raccomanda una proporzione di un terzo).
Durante le carestie la selezione naturale favorisce gli individui che […] tendono a convertire le calorie in adipe, da sfruttare nei periodi di ristrettezze.
Al giorno d’oggi i banchetti oceaniani sono poveri di frutta e vegetali, ma abbondano in costicine di agnello e cibi fritti. Nonché di code di tacchino, le quali possiedono un contenuto di grassi pari al 75 per cento. Si tratta di una ghiandola ripiena di olio che l’uccello usa per rizzare le penne. Il palato occidentale è troppo raffinato per questi manicaretti, e così le code dei 245 milioni di tacchini allevati ogni anno negli Stati Uniti finiscono sulle tavole del Pacifico dove sono considerate una vera prelibatezza. Nel 2007, quando il governo decise di bandirle, i samoani consumavano in media 20 chilogrammi di code di tacchino a testa. Il divieto scontentò la popolazione e finì per essere abrogato appena sei anni più tardi, su pressione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Parte del problema affonda le radici nel retaggio culturale – in molti Paesi africani, ma anche nello stesso Pacifico, l’obesità è vista come una manifestazione di prosperità – e nella genetica. Secondo un’ipotesi elaborata nel 1962 da James Neel, genetista dell’Università del Michigan, durante le carestie la selezione naturale favorisce gli individui che possiedono un corredo di geni da risparmiatore. In altri termini, coloro i quali tendono a convertire le calorie in adipe, da sfruttare nei periodi di ristrettezze. Sono geni che tutte le persone possiedono, ma è plausibile che le popolazioni la cui storia è stata funestata più volte da periodi di privazione ne abbiano versioni più efficienti. Nell’attuale contesto di abbondanza, questo corredo le predispone a sviluppare patologie potenzialmente letali: malattie cardiache e vascolari, diabete, ipertensione.
Il cambiamento nello stile di vita è la combinazione di quattro macro-fattori economici: l’urbanizzazione, l’aumento del reddito pro capite, la tecnologia e l’apertura dei mercati. L’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio (GATT), sottoscritto nel 1947 dagli stati membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha consentito un ampliamento del mercato dei servizi e dei beni. Il primo passo verso la globalizzazione di dieta e stile di vita.
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A un numero sempre più ampio di persone, l’aumento del reddito ha dispiegato un ventaglio di possibilità nutritive che ha modificato le loro diete. Le persone indigenti tendono ad assumere pochi alimenti di base, ma quando si arricchiscono integrano la dieta con cibi più nutrienti come frutta, verdura e prodotti animali. Si tratta di un cambiamento altamente desiderabile, tuttavia non privo di effetti collaterali. Lo sviluppo economico, l’inurbamento della popolazione e la globalizzazione contribuiscono a modificare le preferenze e i consumi, indirizzandoli verso standard occidentali. L’inurbamento – il cui ritmo nell’ultimo secolo si è fatto serrato – è storicamente associato a una maggiore varietà della dieta, all’aumento del consumo di cibo prodotto, processato e cucinato da altri, nonché alla modernizzazione della vendita al dettaglio, che determina cambiamenti nell’offerta alimentare: dal tipo di prodotti, ai prezzi nonché alla dimensione delle porzioni. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 1980 solo il 28% degli africani viveva in area urbane, oggi sono il 40 per cento e nel 2030 oltrepasseranno il 50%.
Nelle città dei Paesi in via di sviluppo, sempre più persone acquistano il cibo nei supermercati anziché nei mercati tradizionali: se nel 1990 solo il 15 per cento della vendita al dettaglio dell’America meridionale avveniva nei supermercati, dieci anni più tardi questa percentuale era lievitata al 60. A eccezione di alcuni centri commerciali situati nelle città più grandi, la maggioranza dei supermercati vendono soprattutto cibi confezionati e pochi prodotti freschi. Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Gottinga in Kenya conferma che fare la spesa in questo tipo di negozi porta a una maggior rischio di diventare sovrappeso oppure obesi. D’altra parte, la presenza dei supermercati che spesso offrono prodotti meno costosi rispetto ai negozi tradizionali, può contribuire a ridurre il rischio di denutrizione infantile. Inoltre, qualità, varietà e sicurezza del cibo sono in genere migliori.

Sono state così selezionate delle colture da reddito, come la canna da zucchero o l’olio di palma, a discapito di altre, come legumi o altre verdure. Oggi, circa il 60 per cento delle calorie consumate in tutto il mondo proviene da appena tre cereali: grano, riso e mais. Inoltre, gli agricoltori hanno selezionato specie che forniscono raccolti abbondanti ma che sono povere dal punto di vista nutritivo. Nel frattempo, lo sviluppo di tecnologie per l’estrazione rapida ed economica di oli da mais, soia, semi di cotone, semi di palma e la selezione di specie ad alto contenuto di oli ha portato a un incremento della disponibilità di questi materiali nella produzione alimentare. Dal 1985 al 2010 il consumo di oli vegetali è aumentato dalle tre alle sei volte nei diversi Paesi in via di sviluppo.
L’aggiunta di grassi e zuccheri migliora il sapore dei cibi ed è per questo che è così gradita dalle aziende alimentari. Oggi si calcola che il 75% dei cibi e delle bevande acquistati negli Stati Uniti contenga zuccheri aggiunti. Non solo biscotti o merendine, ma anche alimenti salati come il pane o il ketchup possono contenere zucchero. La maggiore fonte di consumo sono però le bibite: una lattina di cola contiene 39 grammi di zucchero. In Messico in media il 21% delle calorie consumate quotidianamente dalla popolazione proviene dalle bevande. Nei Paesi a basso o medio reddito è aumentato pure il consumo di prodotti di origine animale: manzo, maiale, pollo, uova, latticini. Alimenti che, fino a qualche decennio fa, erano assenti nelle diete di queste popolazioni, stanno diventando sempre più presenti. Questa tendenza si è rivelata un’arma a doppio taglio. Da una parte il loro consumo può migliorare la qualità dell’alimentazione, dall’altra può portare a un’assunzione eccessiva di grassi saturi.
Questo articolo è la prima parte di una serie sulla dieta nell’Antropocene. Leggi la seconda parte: “L’insostenibile appetito della crescita demografica”.