Continuare a lottare per il clima, dopo la COP26

Il vero lavoro inizia dopo la COP26. Nadiah Rosli, giornalista ambientale malesiana, racconta le sue cinque lezioni dai negoziati frenetici e sconfortanti di Glasgow.

11 minuti | 26 Novembre 2021

Testi di Nadiah Rosli

Mi chiamo Nadiah Rosli, sono una giornalista ambientale malesiana e vivo a Kuala Lumpur. Quest’anno, ero parte dell’organizzazione del Climate Change Media Partnership Program (CCMP) che ha permesso a 22 giornalisti di paesi in via di sviluppo di presenziare alla COP26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta a Glasgow dal 4 al 13 novembre. Durante la conferenza, ero impegnata ogni giorno in vari appuntamenti in diretta video, rivolti in particolare ai giornalisti del Sud del mondo. Il fine era quello di fornire un aiuto concreto a colleghi e colleghe per coprire la COP26 a distanza, garantendo loro l’accesso a un gruppo diversificato di esperti e relatori. Allo stesso tempo, qualche settimana prima della conferenza, RADAR Magazine mi ha chiesto di raccontare al pubblico italiano le mie impressioni su un evento globale molto sentito e partecipato.

È stata la mia prima volta in assoluto a una Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Come prevedibile, si trattava di un appuntamento di alto livello, durante il quale le giornate scorrevano frenetiche e il calendario degli eventi era densissimo. Se a ciò si uniscono le numerose restrizioni per chi viaggia in questa epoca di pandemia, la paura di contrarre il virus (sono una persona ad alto rischio) e i continui tamponi naso e gola, è facile immaginare come, per me, la COP26 sia stata un’esperienza emotiva travolgente e ispirante. Fatta questa doverosa premessa, per cercare di capire (e spiegarvi) meglio cosa diamine sia successo in quei giorni in Scozia, vi presento le cinque impressioni che mi ha lasciato la COP26.

Lacrime

Una delle docenti chiamate per il Climate Change Media Partnership Program era Imelda Abaño, una giornalista filippina che ha raccontato di quando – la prima volta che ha seguito dal vivo una COP, più di dieci anni fa – era scoppiata a piangere dopo che si era resa conto di non essere in grado di comprendere la maggior parte delle questioni tecniche e scientifiche sul cambiamento climatico. In quel momento, ci diceva, si era sentita del tutto impotente davanti alla complessità del tema da trattare. Anni dopo, nel 2016, è stata co-autrice di una manuale sul cambiamento climatico per i giornalisti filippini ed è la presidente e fondatrice di Philippine EnviroNews, il network filippino di giornalisti ambientali. 

La COP può cambiarti ma può anche farti piangere. Io ho versato le mie lacrime ancora prima che la conferenza iniziasse, quando ho dimenticato il mio zaino – con dentro computer, passaporto, portafogli e una confezione di formaggio che avevo appena comprato – su una panchina della stazione di Euston, a Londra. Me ne sono resa conto quando ero già a bordo del treno per raggiungere Glasgow. Miracolosamente, qualcuno ha trovato lo zaino* e lo ha consegnato al personale della stazione. Sono riuscita a recuperare tutto e la vicenda si è conclusa con un lieto fine. Lo stesso non si può dire della COP26.

Una collega indiana mi ha raccontato di avere pianto al termine dell’ultimo giorno delle quasi due settimane di colloqui a Glasgow. […] «Li deluderemo», mi ha detto.

Una collega indiana mi ha raccontato di avere pianto al termine dell’ultimo giorno delle quasi due settimane di colloqui a Glasgow. Si tratta di una professionista specializzata sul tema dei cambiamenti climatici e del loro impatto sulla salute umana. Spesso incontra e parla direttamente con le comunità più colpite. In questo momento sarà tornata a casa, per raccontare i risultati della COP26 alle persone che vivono sotto la costante minaccia di una inondazione, o che trascorrono le giornate avvolte da un’aria irrespirabile. «Li deluderemo», mi ha detto. Non è l’unica persona a essersi sentita così atterrita. Molte altre con cui ho parlato, mi hanno descritto sensazioni molto simili. Addirittura Alok Sharma, presidente della COP26, è stato visto trattenere le lacrime mentre commentava lo svolgimento della conferenza. Deve pur significare qualcosa, no?

Leggi anche: Scientist Rebellion, scienziati in protesta alla COP26

Una questione di prospettive, e di lingue

Che succede quando sei una giornalista inviata a una conferenza con 40.000 partecipanti provenienti da quasi 200 nazioni? Realizzi subito che è necessario pianificare con precisione le tue giornate e che indossare scarpe comode può salvarti la vita. Alla COP26 gli eventi si susseguivano frenetici e gli argomenti trattati erano pressoché infiniti, dalla politica e le sue negoziazioni fino alle questioni più tecniche e specifiche. In un contesto così movimentato, non è semplice incontrare gli esperti per assicurarsi le interviste, così come non è scontato riuscire a partecipare a tutte le conferenze e gli eventi che ti eri ripromessa di seguire. 

La COP26 era la conferenza di cui tutti parlavano e che riguardava i temi a me cari, ma è anche una “bolla” in cui ho vissuto per due settimane. Alcune conversazioni che ho avuto al di fuori della COP mi hanno permesso di cogliere altri punti di vista. «Com’è che Ismail Sabri Yaakob (il primo ministro malesiano, n.d.a.) non è qua?» mi ha chiesto Mr. Lim – un negoziante mio connazionale che conosco dal 2016 (quando ero studentessa all’Università di Glasgow) e che vive in Scozia da 30 anni – dopo aver notato l’assenza di alcuni leader mondiali. Allo stesso tempo, gli autisti Uber oppure le persone che mi ospitavano non avevano nemmeno idea dell’esistenza della COP26. Sembravano del tutto disconnessi da quello che, per me in quei giorni, era il centro del mondo.

Si tratta di un fatto che mi ha permesso di riflettere sul mio ruolo come giornalista nel connettere i fenomeni globali con le questioni locali. Di solito scrivo storie su come il cambiamento climatico abbia un impatto nella quotidianità delle comunità locali. Sto comunicando in maniera davvero efficace alle comunità malesi quelli che sono gli odierni impegni globali? Riesco davvero a ricollegare tutto ciò a quelli che sono i nostri piani nazionali non vincolanti che elencano le azioni da intraprendere per il clima? 

Allo stesso tempo, gli autisti Uber oppure le persone che mi ospitavano non avevano nemmeno idea dell’esistenza della COP26. Sembravano del tutto disconnessi da quello che, per me in quei giorni, era il centro del mondo.

E poi bisogna considerare l’arte di capire il linguaggio utilizzato in qualsiasi testo/messaggio/comunicazione alla COP. Un mio collega ha sottolineato come sia tutta questione di “leggere tra le righe”. In quel momento ci stavamo arrovellando per capire che differenza ci fosse tra espressioni come invitations (inviti) e requests (richieste) utilizzate durante il summit e se ci fosse un ordine di importanza che facesse preferire l’una all’altra.

Alla fine, pare che Instructs sia il termine più energico mentre Invites quello un po’ più debole. Un sera, io e i colleghi ci abbiamo riflettuto. «Forse è un po’ come quando presenti il tuo fidanzato a cena, ma non piace ai tuoi genitori. Di conseguenza, se è mia madre che mi dice che non dovrei più frequentarlo, allora il termine corretto sarebbe instructs (quasi impartisce un ordine). Mentre, se me lo dicesse mio fratello, sarebbe più una “richiesta urgente”? E se si trattasse di una zia che non vedo da anni? In questo caso il suo sarebbe niente di più che un caloroso invito?». C’è da dire che quella sera avevamo bevuto un po’ troppo. 

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Abbassa le aspettative

Ero partita con speranze bassissime per questa COP26. Tuttavia, a conferenza conclusa, ho pensato fosse meglio relativizzare le mie aspettative e considerare un contesto più grande. Chiariamolo subito: i risultati della COP26 sono stati deludenti per me, per qualunque persona sia coinvolta nella salvaguardia dell’ambiente e per chiunque stia cercando ogni giorno di non comportarsi da str**** nei confronti del nostro Pianeta. Tuttavia non ho figli, vengo da un paese che non subisce eventi meteorologici estremi e non devo preoccuparmi che la mia città possa essere sommersa dall’acqua. Ero circondata da giornalisti ed esperti provenienti dalle nazioni più vulnerabili – come le Filippine, il Bangladesh o i piccoli stati insulari – ed ero consapevole del mio privilegio e di come vedo e vivo le crisi climatiche nella mia piccola sfera quotidiana. È forse anche a causa di questa consapevolezza che la mia intervista finale con il capo delegazione malese, Datuk Seri Dr. Zaini Ujang, segretario generale del Ministero dell’Ambiente e dell’Acqua, mi ha portato a un’altra delusione.

Ujang mi ha riassunto quelle che erano le priorità dei negoziatori malesi alla COP26 e ha sottolineato come siano soddisfatti dei risultati dei loro quattro mandati nazionali, ma non dei risultati generali della conferenza. «Non siamo davvero parte della festa, qui» ha precisato, per poi affermare che la Malesia non sostiene una posizione forte sia per quanto riguarda le perdite e i danni provocati dalla crisi climatica, sia per quanto concerne le inconsistenti proposte per eliminare gradualmente i combustibili fossili. Desidero intervistarlo di nuovo. 

Ero circondata da giornalisti ed esperti provenienti dalle nazioni più vulnerabili – come le Filippine, il Bangladesh o i piccoli stati insulari – ed ero consapevole del mio privilegio e di come vedo e vivo le crisi climatiche nella mia piccola sfera quotidiana.

Se poi vogliamo parlare della questione della rappresentanza alla COP26, posso dire con certezza che i 22 giornalisti del CCMP formavano il gruppo più vario di operatori dei media che coprivano la conferenza. Un esempio: uno dei borsisti, Baktygul Chynybaeva, di Azattyk Media in Kirghizistan, è l’unico giornalista specializzato sul clima di tutta l’Asia centrale. Non sorprende, ma è comunque molto spiacevole, che la rappresentanza di genere delle delegazioni presenti alla COP quest’anno sia stata del 65% di uomini e del 35% di donne. Ho parlato con il delegato boliviano, Christian Villareal, che ha suggerito che l’UNFCCC incoraggi i comitati e le delegazioni di tutti i paesi a dare priorità all’equilibrio di genere. «Ma adesso che me lo fai notare, i capi delegazione sono esclusivamente uomini. È qualcosa che va cambiato», è stato il suo commento. 

Nonostante ciò, non tutto quello che è successo alla COP26 è da buttare. È stata la prima COP a riconoscere che l’aumento delle temperature ha raggiunto 1,5 °C. Sono stata anche contenta di marciare insieme a circa 100.000 persone sabato 6 novembre per il Global Day of Action for Climate Justice. Ho visto contadini dall’India, giovani, donne, leader indigeni e persone di tutti i ceti sociali chiedere la stessa cosa: un’azione immediata per il clima. Ho sentito un poliziotto tutto sorridente esclamare «non avevo mai visto una protesta di questo tipo a Glasgow!». In Malesia non abbiamo una grande cultura della protesta, né agenti di polizia che sorridono in occasioni del genere.

Tutto il gusto della COP26

Riconosco e apprezzo gli sforzi dell’organizzazione per informarci sull’impatto (in termini di Carbon Footprint) dei pasti che venivano somministrati. Per fare ciò, hanno inserito le diciture “basso”, “medio” e “alto” vicino alle pietanze dei menù: carne e prodotti di provenienza locale, che spaziavano dall’haggis, il tradizionale piatto scozzese, fino a piatti più internazionali come il ramen. È stato di grande sollievo sapere che potevo scegliere cosa consumare cercando di limitare l’impatto ambientale.

Anche le mie papille gustative hanno apprezzato l’iniziativa? No, decisamente no. Era un’opinione del tutto condivisa tra chi ha partecipato alla conferenza: il cibo era tremendo, insipido e faceva rimpiangere i panini dei fastfood. Uno dei formatori del CCMP, Joydeep Gupta, mi ha confermato che il cibo servito a conferenze simili a cui ha partecipato in passato (a partire dal Summit della Terra del 1992, a Rio de Janeiro) era altrettanto orribile. Il che ci ha spinto a riflettere su che fine abbiano fatto tutte le spezie che l’impero britannico ha importato durante il suo dominio coloniale. C’è qualcuno che lo sa?

Non è finita fino a quando non è finita

Il cambiamento climatico rappresenta la “storia del secolo”. Ora che la COP26 si è conclusa, comincia il bello. I colleghi e le colleghe con cui ho parlato ribadiscono che dobbiamo insistere e scrivere in merito a ciò che i nostri leader e negoziatori stanno facendo nei rispettivi paesi d’origine, e ricordare loro la responsabilità degli impegni presi a Glasgow.

Ci è stato detto più e più volte da chi detiene il potere che ognuno ha un ruolo da svolgere – che dobbiamo riciclare di più, sprecare e consumare meno, prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro e così via. Ma l’azione personale significa anche che ogni cittadino ha la responsabilità di seguire la scienza del cambiamento climatico e di monitorare gli impegni e i progressi compiuti (e non compiuti) da chi è al governo. Come giornalista, ho intenzione di continuare a fare buat bising, un’espressione malesiana che, in parole povere, significa “fare rumore”. Spero che anche gli altri colleghi continuino a farlo. Ricordatevi solo, mentre vi impegnate per incentivare l’azione per il clima, di indossare scarpe comode.

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  • Nadiah Rosli

    Nadiah Rosli è una giornalista ambientale malesiana che si occupa di temi che coniugano scienza, natura e cultura. Ha lavorato per WWF-Malaysia e altri enti nel settore della conservazione e i suoi articoli sono stati pubblicati da VICE (Motherboard), Public Radio International, Scidev.net, New Naratif, The New Straits Times, e altre testate. Dal 2020 è Project Director di Internews, un’organizzazione no profit che supporta il giornalismo indipendente.

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