Memorie dello tsunami

Fotografie di Jacopo Pasotti
A sedici anni dallo tsunami che colpì l'Oceano Indiano il 26 dicembre 2004, Banda Aceh, tra le città più colpite dalla distruzione, sta usando le sue cicatrici per prepararsi ai disastri futuri.

6 minuti | 26 Dicembre 2020

Sono passati quasi vent’anni dal mega-terremoto di magnitudo 9.3 che sconvolse le coste dell’Oceano Indiano uccidendo almeno 270.000 persone. Era il giorno di Santo Stefano del 2004, e da allora la parola tsunami, prima accennata in un paragrafo nei sussidiari di scuola, è un termine comune. Quel sisma rimane uno dei più violenti degli ultimi cento anni, capace di provocare un’onda colossale che sulle coste dell’isola indonesiana di Sumatra raggiunse anche i 30 metri di altezza. Da allora Banda Aceh, la città lungo le coste di Sumatra che fu maggiormente colpita dal disastro, è rinata. Questo anche grazie alle moltissime donazioni pubbliche e private usate per finanziare 1500 progetti di ricostruzione. Dopo lo tsunami i più concordano sul fatto che Banda Aceh sia perfino migliorata: i guerriglieri del Movimento per l’Aceh Libero (GAM) hanno deposto le armi per trasformarsi in un partito “agguerrito”; c’è maggiore libertà di idee e di movimento, anche se purtroppo durante l’ultimo decennio c’è stato un deciso inasprimento della legge islamica, forse proprio a causa della presenza del vecchio GAM nel tessuto politico della regione. Intanto comunque, circolano nuovi capitali e anche qualche turista. Tra tutti i rischi che Sumatra corre, però, il più pericoloso è l’oblio. Dopo il disastro del 2004 diversi studi hanno mostrato che, con ricorrenza secolare, tsunami di questa entità sono già avvenuti. Il periodo di ritorno di eventi di questa entità è di circa 600-900 anni. E non c’è chiavetta USB, libro o altro che garantiscano una memoria storica e duratura per sei o più secoli.

Probabilmente tra molte generazioni uno tsunami come quello del 2004 si ripeterà. Come fare per non dimenticare e non trovarsi impreparati come accadde allora?

Uno studio ha riportato alla luce un disastroso tsunami intorno all’inizio del XV secolo. Gli archeologi autori della ricerca hanno trovato evidenze di abbandono di villaggi costieri nel sultanato di Aceh. Dopo il maremoto di Santo Stefano è stato anche visto che i coloni olandesi avevano spostato il centro di Banda Aceh proprio oltre il limite raggiunto dall’onda nel 2004 e c’è chi sospetta che sia stato a seguito di uno tsunami. Se l’essere umano scorda i disastri geologici, la geologia però non dimentica i suoi appuntamenti e prima o poi si manifesta ancora. Gli tsunami appartengono a quei pericoli che hanno frequenza bassa (molto bassa), ma enorme distruttività. Sono il contrario delle piogge intense nelle nostre regioni. Oppure sono come Stromboli e Vesuvio. Probabilmente tra molte generazioni uno tsunami come quello del 2004 si ripeterà. Come fare allora per non dimenticare e non trovarsi impreparati come accadde allora?
Un cosiddetto escape building (in secondo piano), costruito con fondi del Giappone. In caso di tsunami la popolazione può trovare rifugio all’interno di questi edifici.
Una soluzione proposta è quella di mantenere alcune cicatrici e renderle ben visibili, per esempio facendone dei memoriali. O, addirittura, facendone attrazioni turistiche. In questo modo si informa e si educa anche chi viene a esplorare la regione. A Banda Aceh questa idea la hanno presa seriamente e durante la mia visita ho trovato perfino una brochure che promuoveva la “visita dei siti storici dello tsunami”. Questa è una delle soluzioni, ma non l’unica, chiaramente. Oggi c’è anche un sistema di allerta tecnologico, e sirene di allarme in tutta la città. Ma il turismo della memoria può svolgere un importante ruolo educativo anche in “tempi di pace”, quando tutto appare calmo e sembra poter restare così per lungo tempo. Ne è convinta per esempio Ella Meilianda. Ricordo bene la prima volta in cui la ho incontrata a Banda Aceh: «Se ora il mondo intero sa cosa vuol dire tsunami, e sa quanto orribile può essere, è grazie al disastro che ha distrutto la nostra città», aveva detto. Meilianda è ricercatrice presso lo Tsunami Disaster and Mitigation Research Centre (TDRMC). Indossava una jilbab color giallo zafferano e, come l’80% degli acianesi, è musulmana. Meilianda era tornata dall’Europa, dove aveva svolto un dottorato in ingegneria. «Ora il mio obiettivo è di rinforzare la comunità per aiutarla ad affrontare le avversità del futuro», aveva detto.

Rifiutare o rimuovere i segni di traumi come un maremoto possono rendere più vulnerabili le generazioni future

«Banda Aceh ha deciso di non dimenticare, e noi crediamo che questa sia stata un’ottima scelta», aveva spiegato la ricercatrice che stava proprio studiando la percezione pubblica del pericolo di tsunami. Dicendo noi intendeva infatti il piccolo nucleo di studiosi esperti di rischio naturale raccolti nel TDRMC. L’istituto è frutto del Multidonor Fund, che venne istituito subito dopo il disastro grazie alle donazioni provenienti da tutto il mondo. Una reazione tipica di fronte agli eventi nefasti che colpiscono una società è quella di ignorarli, rimuoverli, dimenticarli. «Questo potrebbe aiutare chi soffre nel presente forse, ma sicuramente lo rende più vulnerabile in futuro», aveva detto Meilianda mentre mi mostrava le cicatrici urbane (sempre meno riconoscibili) dello tsunami. E il rifiutare o rimuovere i segni di traumi come un maremoto possono rendere più vulnerabili le generazioni future. E così Banda Aceh ha costruito il Parco del Ringraziamento, con i monumenti alle nazioni accorse in aiuto della città. E poi il Museo dello Tsunami, con una architettura che unisce geometrie tradizionali e moderne. Nei giorni di festa il museo si riempie di visitatori di ogni età. All’interno ci sono documenti, ricostruzioni degli eventi di quel giorno e installazioni che evocano il passaggio dalla vita terrena al ricongiungimento con Dio.
Un orologio che si fermò nel momento dello tsunami ora è un monumento, e un luogo adatto per un ritratto con il cellulare.
C’è anche una delle barche dei pescatori che fu trascinata dall’onda fino al centro della città. Giace sopra una casa, è stata ben puntellata, ed è lì, sul tetto sfondato della abitazione. L’idea iniziale era di rimuoverla, come fu fatto per le molte altre barche dei pescatori, ma per questa fu deciso di lasciarla sul posto. Un pannello ne spiega la storia. Un’altra immensa chiatta di metallo che l’onda portò due chilometri verso l’interno è diventata un monumento nazionale. Ci sono bandierine, guide che ti accompagnano, souvenir e faretti per l’illuminazione notturna. I giorni di festa si popola di famiglie che fanno picnic e coppiette che si ritraggono con lo smartphone. Dal tetto della chiatta si gode persino di una vista panoramica sulla città. Ma sotto la sua pancia giacciono sicuramente alcune vittime dello tsunami. Anche le fosse comuni sono visitabili. Alcuni pannelli ricordano il tragico evento. Non lontano dalla costa, tra i tetti di lamiera e le mangrovie, si possono visitare i nuovi edifici di evacuazione, sempre accessibili. Sembrano parcheggi e hanno il tetto ampio e piatto per facilitare l’atterraggio di elicotteri. Infine c’è la Grande Moschea, dove migliaia di persone trovarono rifugio. La moschea fu (miracolosamente) solo sfiorata dallo tsunami. Anzi, furono in molti a trovare la salvezza arrampicandosi sul suo tetto. Aceh ha puntato dunque sul turismo della memoria. Visto con l’occhio di uno che arriva dall’esterno, può sembrare un po’ strano vedere persone che si fanno ritrarre con indice e medio a V, sorridendo di fronte a un monumento che ricorda una tragedia, ma rimane il fatto che in questo modo le cicatrici sono vive e visitate. Il turismo per ora giunge soprattutto dall’interno, complice un ambiente politico poco rassicurante nella prospettiva occidentale.

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  • Jacopo Pasotti

    Jacopo Pasotti è un giornalista, fotografo e scrittore di temi legati all’ambiente. Dal Polo nord all’Antartide, dall’Indonesia all’Amazzonia, racconta di società umane e di natura.

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