Quando i primi esploratori inglesi e francesi sbarcarono in Nordamerica – in quella che allora venne battezzata Terranova – il mondo che si trovarono davanti dovette apparire davvero nuovo: un ambiente naturale incontaminato e fertile, ricchissimo di risorse. Alcune immagini tornano più e più volte nei diari e nei resoconti dei colonizzatori europei: fiumi così colmi di pesci da poter lasciar cadere un piombino da pesca senza farlo affondare, baie invase dalle tartarughe marine, colonie di ostriche così grosse da rendere pericoloso il passaggio delle navi tra gli scogli. Immagini che sembrano assurde, ingigantite, sicuramente niente di più che i racconti iperbolici dei viaggiatori. Eppure le stesse descrizioni ritornano da fonti diverse, e concordano con i resoconti delle prime spedizioni che – viste le risorse così abbondanti e meravigliose – iniziarono a sfruttarle. Nel 1517, 50 navi all’anno attraversavano l’Atlantico per tornare in Europa piene di merluzzi essiccati; alla fine del Cinquecento erano più di 150. Alla metà del Settecento, i resoconti dei mercanti attestano che ogni anno in Spagna e in Portogallo arrivavano 30.000 tonnellate di merluzzo dalla Terranova, una fonte che sembrava inesauribile. Nello stesso periodo, i salmoni e gli storioni dei fiumi del New England garantivano un sostegno sicuro alle colonie inglesi – che presto si sarebbero dichiarate indipendenti.
Ma questa ricchezza non sarebbe durata in eterno. Già nell’Ottocento, l’attenzione dei pescatori nordamericani si era spostata verso altre specie, perché i pesci redditizi come gli storioni iniziavano a scarseggiare. Le aragoste – che all’epoca della colonizzazione erano usate come esche dalle popolazioni indigene – diventarono la nuova specialità.

Eppure, per secoli abbiamo faticato a scrollarci di dosso la percezione che i mari e gli oceani fossero ambienti incontaminati, troppo vasti e misteriosi per essere modificati dagli esseri umani. Forse perché «gli oceani, diversamente dalle foreste, ci appaiono a prima vista sempre uguali, anche se li abbiamo svuotati del loro contenuto», come si leggeva in un editoriale di Conservation Ecology di qualche anno fa. Ma se sappiamo che gli oceani di oggi sono più poveri di vita di quelli del passato, è difficile stimare con precisione come dovevano apparire gli ecosistemi marini prima dei danni causati dallo sfruttamento umano. La raccolta di dati scientifici sulla vita marina è iniziata solo a partire dalla seconda metà del Novecento, ma i biologi marini cercano di ricostruire questi scenari con la collaborazione di esperti di settori diversi: storici, paleontologi, storici dell’arte, ma anche pescatori.
«Le tecniche dipendono da quanto indietro si vuole andare nel tempo», mi spiega Tomaso Fortibuoni, ricercatore all’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA) di Ozzano dell’Emilia. Durante il periodo del suo dottorato, Fortibuoni si è occupato di studiare come è cambiata la vita nel Mar Adriatico negli ultimi due secoli. Un’impresa complessa, perché i dati sul Mediterraneo vengono raccolti in modo sistematico da pochi decenni. «Alcuni monitoraggi scientifici risalgono al secondo dopoguerra, ma sono state esperienze limitate nel tempo e nello spazio. Negli anni Novanta invece è iniziato un monitoraggio delle popolazioni marine continuo negli anni e con una buona copertura spaziale, che va avanti ancora oggi con le stesse metodologie; questo ci permette di ricostruire gli andamenti temporali delle abbondanze e delle caratteristiche delle popolazioni marine studiate. Nel 1994 però la situazione era già altamente compromessa, perché la pesca industriale si era già sviluppata dal secondo dopoguerra».

Tra questi limiti, c’è il fatto che forniscono informazioni dirette solo sulle specie di interesse commerciale. «Ma avere dati di bassa qualità è sempre meglio di non avere dati», commenta pragmaticamente il biologo. Per esempio, danno la possibilità di calcolare la proporzione che c’era tra le diverse specie, un elemento significativo per capire la composizione dell’ecosistema marino». E anche di cogliere dei macrosegnali, come il declino dei mammiferi marini e dei pesci con ciclo vitale lungo. «I pesci cartilaginei, come squali e razze, in passato rappresentavano oltre il 10% di quello che si trovava nel mercato ittico, mentre già negli anni Cinquanta erano meno del 3%».
Oggi gli animali marini di grandi dimensioni come gli squali, i cetacei e le foche non sono una visione comune nel Mediterraneo. Ma se avessimo navigato al largo delle coste italiane anche solo qualche secolo fa, avremmo visto con facilità squali martello, squali violino e squali angelo (squali con pinne pettorali molto ampie, che li fanno assomigliare a razze). La foca monaca si trovava sulle coste di tutto il Mediterraneo, dal Marocco al Mar Nero passando per la Dalmazia; oggi è ridotta a poche centinaia di individui. Ancora all’inizio del Novecento, la pesca del tonno era diffusa su tutta la costa orientale dell’Adriatico; durante l’estate, i tonni entrano nelle acque calde del Mediterraneo per riprodursi, passando per lo Stretto di Gibilterra e percorrendo ogni anno le stesse rotte. I pescatori della costa istriana costruivano osservatori sulla riva, per sorvegliare le acque in attesa dei tonni; gli animali, che potevano misurare oltre 3 metri, poi sarebbero stati pescati e venduti al mercato di Trieste.

In mancanza di una visione chiara del passato, è difficile capire se l’ambiente che osserviamo è incontaminato o se è stato compromesso – e quanto – dall’azione umana. Di generazione in generazione, l’asticella di quello che percepiamo come un ambiente tutto sommato naturale si abbassa: così il campo coltivato al limitare del quartiere in cui un ventenne di oggi è nato e cresciuto (nella sua esperienza, è sempre esistito) appare agli occhi di un sessantenne come il risultato della distruzione di un boschetto di pianura; agli occhi del novantenne, chissà. La memoria dei cambiamenti di lungo periodo viene persa, perché ogni generazione non può che confrontare le variazioni che osserva nel corso della vita con le proprie esperienze. È un fenomeno che è stato definito la “sindrome dello spostamento del punto di riferimento” (shifting baseline syndrome); colpisce tutti, ed è un problema particolarmente infido per chi studia la biodiversità sul pianeta, perché per studiare il cambiamento c’è bisogno prima di definire qual è la baseline, la normalità.
Inconsapevolmente, anche i ricercatori tendono a usare come punto di riferimento le osservazioni che fanno all’inizio della loro carriera, soprattutto in mancanza di dati affidabili sul passato – come nel caso degli ecosistemi dei mari e degli oceani.

È difficile pensare a come potesse davvero apparire l’ambiente naturale europeo prima che noi esseri umani iniziassimo a sfruttarne le risorse in modo sistematico. Per questo guardare ai resoconti storici che raccontano dell’ambiente del Nordamerica di qualche secolo fa, quasi immacolato (secondo la nostra baseline, naturalmente: le popolazioni indigene sfruttavano già le risorse naturali, per quanto in modo non intensivo) è così affascinante: ci fa pensare che forse un mondo così sarebbe possibile. Secondo alcune stime, quando Colombo arrivò nei Caraibi, la barriera corallina ospitava una popolazione tra i 30 e i 40 milioni di tartarughe verdi (Chelonia mydas). I giganteschi banchi di ostriche che coprivano i fondali in corrispondenza degli estuari sulla costa atlantica, dal New England alla Florida, oltre a ostacolare la navigazione erano anche un efficiente meccanismo di filtraggio dell’acqua: secondo alcuni calcoli le ostriche della baia del Chesapeake ne filtravano tutta l’acqua in appena una settimana (oggi ce ne mettono 46). I lamantini erano così numerosi nelle zone paludose dell’America Centrale che erano considerati un comune bersaglio dai cacciatori.
Questi dati non sono soltanto un esercizio di analisi delle fonti storiche. Ci forniscono indizi su come si sono sviluppati gli ecosistemi marini, di cui oggi forse stiamo osservando solo una pallida traccia. E ci danno un punto di riferimento per proteggere e ricostituire la fauna marina – forse un po’ più ambizioso di quello da cui partiremmo oggi.
