Il traffico illegale di tigri lega l’Asia all’Europa

Testi di Rudi Bressa
Fotografie di Elisabetta Zavoli
In alcuni paesi asiatici la richiesta di tigri (e loro parti) è alimentata dalla medicina tradizionale e dal turismo. E le esportazioni partono anche dall'Europa, nonostante i divieti. Un estratto da “Trafficanti di natura”, il nuovo libro di Rudi Bressa.

10 minuti | 14 Luglio 2023

Nel novembre del 2021, alcune impronte sulla riva del fiume Aldan nel sud-est di Sakha, nella Siberia Orientale, si guadagnarono l’attenzione degli zoologi. Appartenevano a un esemplare adulto di tigre dell’Amur (Panthera tigris altaica) e testimoniavano il ritorno in quella regione di uno dei felini più grandi presenti sul pianeta. Secondo le fonti locali, la tigre siberiana non faceva notare la sua presenza almeno da cinquant’anni, mezzo secolo durante il quale si è rischiato di perderla per sempre. Se nel 1930 si contavano dai 20 ai 30 esemplari, alla fine del 2005 gli esemplari adulti stimati si aggiravano intorno ai 415-476. Un incremento certo, ma ancora troppo flebile per considerare questa specie in ripresa. 

Nella Lista rossa dell’IUCN, infatti, la tigre (Panthera tigris) è considerata una specie “in pericolo” (EN, Endangered), dal momento che rischia di estinguersi nei prossimi vent’anni, o in cinque generazioni, e conta meno di 2.500 esemplari maturi. In poco meno di vent’anni si è perso il 45% di tutte le tigri del pianeta. 

Frammentazione degli habitat, deforestazione e aumento della pressione antropica sono tra le cause maggiori, ma sarebbe impossibile comprendere il fenomeno senza considerare anche il bracconaggio e il traffico illegale di parti e sottoprodotti, un mercato redditizio che non accenna a diminuire nonostante gli sforzi della comunità internazionale impegnata nella regolamentazione del commercio e nella conservazione della specie.

La tigre è considerata una specie “in pericolo” (EN, Endangered), dal momento che rischia di estinguersi nei prossimi vent’anni, o in cinque generazioni, e conta meno di 2.500 esemplari maturi.

Non passano mesi senza che dall’Asia, in particolare dall’India e dal Bangladesh, giunga notizia della cattura di bracconieri accusati di uccidere tigri del Bengala (Panthera tigris tigris) per venderne la pelliccia, il cranio e le ossa. […] Ma perché tutta questa attenzione per la tigre? Principalmente a causa dei dettami della medicina tradizionale cinese. Le ossa per esempio vengono polverizzate e bollite per realizzare la cosiddetta “colla di ossa di tigre”, che successivamente viene disciolta nel vino e venduta come medicinale per curare problemi ossei, dolori e reumatismi. La carne è considerata un piatto prelibato ed esotico, mentre denti, artigli e pelli vengono impiegati come ornamenti o amuleti. La tigre rappresenta la forza, il coraggio, il carisma. Un aspetto radicato da secoli nella cultura asiatica, e in quella cinese in particolare, tant’è che questo animale fa parte anche di uno dei segni zodiacali dell’oroscopo cinese. […]

Si tratta di un mercato particolarmente florido in Cina, Vietnam, Thailandia e Laos, nonostante il divieto di commerciare prodotti e sottoprodotti derivati da tigri sia selvatiche che allevate. In questi Paesi esistono infatti veri e propri allevamenti, in cui si stima siano presenti almeno 8.000 esemplari: qui le tigri vengono allevate per intrattenere i turisti, anestetizzate per essere meno pericolose e tenute in gabbie che non ne garantiscono una soglia di benessere accettabile. Ma c’è di più. Sotto la patina innocente di struttura ricettiva, si nasconde spesso un proficuo commercio di prodotti destinati al traffico illegale. 

Piuttosto eclatante è il caso denunciato dal “National Geographic” nel 2018 grazie ad alcuni membri della Wildlife Justice Commission (WJC) che, sotto copertura, hanno raccolto numerose testimonianze su quanto questo commercio sia ramificato e attivo. In alcuni casi sono entrati direttamente in contatto con l’allevatore che mostrava loro la tigre ancora viva, per rassicurarli sulla bontà del “prodotto”. Di solito, giunto in una di queste strutture, il potenziale compratore ha l’opportunità di scegliere l’animale che preferisce e che verrà successivamente ucciso e macellato sul posto. Alcuni compratori portano con sé i propri macellai di fiducia, per non rovinare la “merce”. Il tutto avviene come in un normale allevamento di animali da reddito, se non fosse che dall’altra parte c’è uno dei più grossi felini viventi del pianeta.

Qui le tigri vengono allevate per intrattenere i turisti, anestetizzate per essere meno pericolose e tenute in gabbie che non ne garantiscono una soglia di benessere accettabile. Ma c’è di più.

Nel 2016 l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si concentrò invece sulla chiusura da parte delle autorità thailandesi del Tempio delle Tigri, struttura che attirava centinaia di turisti ogni anno e da ogni parte del mondo. A chiunque abbia visitato Bangkok sarà capitato di essere avvicinato da un tassista, o addirittura da qualcuno in hotel, con la proposta di una visita a una “tiger farm” in cui poter scattare qualche foto ricordo insieme a cuccioli di tigre o esemplari adulti. Un souvenir da portare a casa e da mostrare agli amici che però nasconde spesso un lato oscuro. Le autorità intervenute nel sequestro avevano trovato almeno 40 cuccioli stipati in un freezer, oltre a un monaco buddhista che tentava la fuga con 1.600 tra prodotti e sottoprodotti di tigre. Delle 147 tigri recuperate e trasportate in strutture idonee, 86 morirono pochi anni dopo.

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Recentemente un gruppo di giornalisti investigativi ha pubblicato una lunga inchiesta nella quale viene raccontato con quale facilità sia stato possibile entrare in contatto con alcuni dei maggiori “trafficanti” vietnamiti di tigri. I primi contatti avvengono in rete, attraverso i profili social dei venditori. Una volta conquistata la fiducia e aver garantito di essere disposti a sborsare ingenti cifre (un artiglio può costare anche 400 euro, una tigre intera circa 8.000), i venditori si mostrano disponibili a procurare qualsiasi prodotto in tutta sicurezza e fornendo delle “certificazioni” sulla sua provenienza. […] 

Va detto che la tigre selvatica è stata inserita già nel lontano 1973 all’interno della CITES, che ne ha vietato lo scambio e la vendita, se non per scopi prettamente scientifici o conservazionistici, e lo contrasta tutt’oggi affinché non minacci la sopravvivenza della specie. La risoluzione ha avuto svariati sviluppi negli anni, come quelli del 1993 e del 1994 (quando le parti chiesero di vietarne il commercio interno), fino ad arrivare al 2007 con la decisione chiara e perentoria che le tigri non dovevano essere allevate per il commercio di parti e derivati. […] Ma c’è un punto fondamentale che può sfuggire a una prima osservazione, un collegamento che non viene colto immediatamente: qual è il legame tra gli animali allevati con il declino della specie selvatica in Asia? La risposta è che le tigri allevate in cattività alimentano il mercato illegale. E così facendo favoriscono la domanda che, crescendo, mette a rischio la specie selvatica. 

Cosa ancora più stupefacente, l’Europa è uno degli hot spot dell’esportazione di animali vivi o di loro prodotti verso il Sudest asiatico benché la tigre sia elencata tra le specie in pericolo dai Regolamenti sul commercio di fauna e flora selvatica (Allegato A), che ne vietano l’uso commerciale, applicando esenzioni solo per scopi educativi, di ricerca o di riproduzione, anche per quegli esemplari nati e allevati in cattività.

Basta guardare ai dati e ai numeri dei sequestri registrati negli ultimi anni: secondo un’analisi distribuita su un periodo di 19 anni (dal 2000 al 2018) sono stati confiscati almeno 2.359 prodotti e sottoprodotti in circa 1.142 sequestri, distribuiti in 32 Paesi a livello globale. Se invece si vanno ad analizzare i dati contenuti nell’EU-TWIX14, si scopre che tra il 2013 e il 2017 in Europa sono stati effettuati ben 95 sequestri. Di questi la quasi totalità erano medicinali contenenti derivati della tigre. 

L’Europa è uno degli hot spot dell’esportazione di animali vivi o di loro prodotti verso il Sudest asiatico.

È quindi plausibile pensare che esista un mercato nero grazie al quale gli allevatori riescono a sfuggire alle maglie delle legislazioni e dei registri internazionali, e capace di alimentare la domanda asiatica. La filiera parte spesso da un allevatore o un proprietario di vari animali, impiegati per uso ricreativo (parchi faunistici o zoologici, addestratori o spettacoli itineranti), che falsifica i documenti – ogni tigre è registrata presso gli uffici CITES territoriali – in modo tale che l’esemplare esca dai circuiti ufficiali. I felini o i prodotti derivati vengono poi lavorati da un esperto (spesso un tassidermista) e successivamente venduti. Dall’altra parte esiste un acquirente, spesso di base nel Paese di provenienza dell’animale, che fa da tramite con le parti interessate. 

Piuttosto emblematico è il caso della Repubblica Ceca, che in Europa ha fatto scuola. Nel settembre del 2018 l’Ispettorato ambientale ceco (CEI) ha provveduto a fornire un documento (denominato SC70) che riportava nel dettaglio il modo in cui è strutturato il traffico illegale di tigri nel Paese. «Negli ultimi anni» si legge nel documento, «il coinvolgimento della comunità vietnamita nel traffico di fauna selvatica è aumentato considerevolmente nella Repubblica Ceca». Un mercato nero piuttosto florido e redditizio che coinvolge anche l’avorio proveniente da corna di rinoceronte. La tratta, secondo le autorità, «è altamente sviluppata, organizzata e non coinvolge solo individui, ma gruppi organizzati che hanno legami internazionali e operano non solo nella Repubblica Ceca ma anche in altri Paesi».

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E dove finiscono questi prodotti? Sono venduti principalmente in Vietnam ma anche consumati dalla comunità che vive in Europa. Un lavoro enorme, durato anni, che ha portato le forze dell’ordine ceche a sequestrare svariati prodotti scovati negli aeroporti, alle dogane, nei negozi, nei mercati e nelle piazze. Lavoro che nel 2015 ha spinto la CEI a fare un’indagine conoscitiva per monitorare la presenza di tigri nel Paese e fotografare il momento. Un’analisi dettagliata ha mostrato la presenza di circa 174 tigri nella Repubblica Ceca, con un totale di 404 segnalate negli anni, comprese nascite e morti: un’enormità. Ne sono derivati sequestri che indicavano la chiara volontà del commercio, come freezer stipati di corpi, o felini trovati uccisi da colpi di fucile, praticamente giustiziati. 

Ma ciò che ha colpito gli ispettori è stata la facilità con cui si possono manomettere non solo i documenti rilasciati dal CITES, ma anche i microchip, che vengono scambiati, danneggiati o rimossi. Portando al sospetto che tutto ciò sia compiuto proprio per rendere difficilmente identificabili i diversi esemplari: non sono mancati casi in cui un maschio diventava una femmina, o di alcuni animali semplicemente scomparsi nel nulla. Una lacuna comune a molti altri Paesi europei, come mostrato da numerosi report realizzati non solo da TRAFFIC, ma anche da altre associazioni non governative e inchieste giornalistiche.

Ciò che ha colpito gli ispettori è stata la facilità con cui si possono manomettere non solo i documenti rilasciati dal CITES, ma anche i microchip, che vengono scambiati, danneggiati o rimossi.

Come quella a cui ho partecipato a cavallo tra il 2020 e il 2021, nata per tentare di comprendere il fenomeno e fare un focus in Francia e soprattutto in Italia. Il lavoro, durato circa cinque mesi, ha portato la squadra, per la prima volta, a rendere pubblici i numeri delle tigri presenti nel nostro Paese, almeno per quanto riguarda quelle ufficiali, e a scoprire che i diversi enti preposti al controllo avevano dati che non combaciavano tra loro. Secondo l’allora Ministero dell’Ambiente le tigri sarebbero state 75, di cui 36 presenti presso i giardini zoologici provvisti di licenza, e 39 presso giardini zoologici per i quali il rilascio della licenza era in corso di valutazione o in fase finale d’istruttoria. 

Invece, dopo una ricognizione del 2020 da parte del Raggruppamento CITES dell’Arma dei Carabinieri, dovuta a un sequestro di dieci tigri avvenuto ai confini con la Bielorussia nel 2019, figuravano 93 tigri nelle strutture zoologiche, nei Centri di recupero e negli allevamenti, e 68 presenti nei circhi, per un totale di 161 esemplari. Ma, secondo alcune Ong, si arriverebbe addirittura a un totale di 400 individui.

Una discrepanza che mostra tutte le lacune del sistema di monitoraggio e di controllo. E che apre degli interrogativi: com’è possibile monitorare gli scambi, siano essi legali o meno, se non si conosce il numero esatto degli individui presenti in un dato territorio? E com’è possibile assicurare che gli animali non finiscano in rotte sommerse per alimentare il mercato nero? Nell’aprile del 2021 l’inchiesta ha portato a un’interrogazione parlamentare in Senato, della quale, al momento in cui scrivo, non si conoscono ancora gli esiti.

Com’è possibile monitorare gli scambi, siano essi legali o meno, se non si conosce il numero esatto degli individui presenti in un dato territorio?

Sulla questione di quanto influiscano gli allevamenti di tigre sulla conservazione della specie selvatica, il mondo accademico ha molto discusso negli anni e lo sta tuttora facendo. Le contrapposizioni sono estreme, ma ci si chiede se aprire a un commercio legalizzato sia la strada migliore per salvare Panthera tigris da un’estinzione che, di questo passo, avverrebbe entro la vita di chi sta leggendo in questo momento. Secondo Eric Dinerstein, biologo conservazionista, l’apertura al commercio legalizzato è da escludere, in quanto potrebbe determinare l’estinzione definitiva della specie in natura. […] Se si aprisse al commercio, le tigri selvatiche non avrebbero scampo. C’è però chi sostiene l’esatto opposto, ovvero che l’apertura del mercato di tigri allevate in cattività annienterà bracconaggio e contrabbando perché le parti legali saranno disponibili, tracciate e controllate. […]

Pensare di non riuscire a ridurre la pressione su questa specie e di rischiare di perderla così, magari con la residua speranza di vederla relegata solo in giardini zoologici o parchi faunistici, accresce la frustrazione e fa sorgere una domanda: se come società non riusciamo a trovare le soluzioni adatte, come possiamo sperare di risolvere la crisi climatica e la ben peggiore crisi ecologica che stiamo vivendo in quest’epoca?

Estratto da “Trafficanti di natura” di Rudi Bressa (Codice edizioni, giugno 2023).

Trafficanti di Natura Rudi Bressa

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  • Elisabetta Zavoli

    Elisabetta Zavoli è una fotografa documentarista specializzata nelle tematiche ambientali e nel rapporto tra esseri umani e ambiente.
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  • Rudi Bressa

    Rudi Bressa è un giornalista ambientale e scientifico. Collabora con testate nazionali e internazionali e scrive di cambiamenti climatici, transizione energetica, economia circolare e conservazione della natura.
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