Il vino che verrà

Nella produzione di vino, il clima è un fattore fondamentale. Ma oggi sta cambiando: ricercatori e viticoltori studiano nuove tecniche di adattamento per garantire la resa e la qualità del vino, nonostante il cambiamento climatico.

11 minuti | 1 Aprile 2022

È la notte tra il 7 e l’8 aprile 2021, la Pasqua è appena passata e dopo un inverno decisamente mite, la temperatura in molte regioni italiane scende sotto lo zero. I viticoltori italiani al mattino troveranno delle amare sorprese. Nei vigneti quella notte si è verificato uno degli eventi da gelata tardiva più intensi ed estesi degli ultimi anni. Al momento della raccolta, qualche mese dopo, la conta delle perdite sarà particolarmente grave. Si parla di una riduzione di produzione di 22 milioni di ettolitri rispetto all’anno precedente, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino. In termini di quantità, una delle annate peggiori degli ultimi vent’anni.

Per quanto possa sembrare strano, il danno causato alle viti dalle gelate tardive del 2021  è una conseguenza dei cambiamenti climatici. Le temperature elevate provocano un anticipo nella ripresa vegetativa delle viti, rendendo i nuovi germogli vulnerabili nel caso in cui il termometro scenda sotto lo zero. Si tratta di una delle tante conseguenze sempre più frequenti dei cambiamenti climatici che stanno colpendo i vigneti europei e modificando le caratteristiche dei vini, evidenziando di anno in anno la grande e crescente fragilità di questo settore.

Vendemmia anticipata

Tra i primi a lanciare un allarme dalle pagine dell’American Journal of Enology and Viticulture nel 2000 ci furono Gregory Jones e Robert Davis. Dalle loro osservazioni, seguite da molte altre in tutte le principali regioni viticole, dal 1952 al 1997 le fasi di germogliamento, fioritura, invaiatura e raccolta nella regione di Bordeaux in Francia, avevano subito un anticipo significativo.

Se qualcosa sta cambiando nelle stagioni, qualcosa immancabilmente cambierà nella qualità e nella tipicità dei vini.

In un’area dove la raccolta avveniva mediamente intorno al 2 ottobre, con annate che si spingevano fino al 17 di quel mese, nel 1997 gli agricoltori degli Chateau più prestigiosi al mondo avevano impugnato forbici e cassette il 3 di settembre. Non è poco per una coltura il cui ciclo vegeto-produttivo dal germogliamento alla raccolta si svolge in non più di sei o sette mesi in funzione delle varietà. E già in quei primi anni gli scienziati mettevano in guardia: se qualcosa sta cambiando nelle stagioni, qualcosa immancabilmente cambierà nella qualità e nella tipicità dei vini delle regioni di maggiore tradizione viticola.

Alle osservazioni di Jones e di molti altri scienziati sono seguiti i modelli con i quali i ricercatori hanno tentato di proiettare nel futuro le evidenze di cambiamento in atto.

Marco Moriondo è ricercatore all’Istituto di Bioeconomia del CNR di Firenze, dove si occupa di modellistica applicata al clima e alle coltivazioni ed è, secondo la classifica redatta da Reuters, uno dei mille scienziati più influenti al mondo nella sfida al cambiamento climatico. Gli abbiamo chiesto come si realizzano, a cosa servono e come si usano i modelli climatici in viticoltura. 

Modelli climatici per il vino del futuro

«Il punto di partenza per la previsione degli impatti del cambiamento climatico in agricoltura sono i modelli climatici, che stimano gli andamenti delle variabili meteorologiche da oggi fino alla fine del secolo in risposta a possibili scenari di emissioni di gas serra in atmosfera. Esistono diversi scenari, ognuno dei quali prende in considerazione un possibile tipo di sviluppo economico. Ad esempio, lo scenario più ottimistico si basa sul presupposto che la comunità internazionale converga su una drastica riduzione di emissioni di gas serra, contenendo l’aumento della temperatura globale a 2°C entro la fine del secolo. Altri scenari meno ottimistici prevedono un incremento oltre questa soglia.

Il nostro lavoro consiste nell’utilizzo dei dati meteorologici di ciascuno di questi scenari come input di altri modelli di simulazione dello sviluppo e crescita della vite per le diverse aree produttive. Valutando caso per caso le implicazioni sui livelli produttivi e qualitativi della coltura e ipotizzando possibili pratiche di adattamento per controbilanciare gli effetti di un clima più caldo e arido». 

Le simulazioni realizzate nell’area Mediterranea, che vanta tradizioni millenarie nella produzione di vino, indicano che le regioni più esposte nel margine sud di Spagna, Italia e Grecia potrebbero divenire non ottimali per una viticoltura di qualità. A meno che non si trovino strumenti di adattamento per affrontare il cambiamento, modificando le tecniche colturali, le scelte delle varietà e nel lungo periodo, forse, anche la collocazione dei vigneti.

Le simulazioni realizzate nell’area Mediterranea indicano infatti che le regioni più esposte in Spagna, Italia e Grecia potrebbero divenire inospitali o non ottimali per una viticoltura di qualità.

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Una mappa degli impatti sul settore vinicolo

Nel progetto europeo LIFE Adapt2Clima, realizzato per studiare l’impatto del riscaldamento globale in una regione particolarmente sensibile quali sono le isole del Mediterraneo, Moriondo e il suo gruppo hanno fatto proprio questo, inserendo all’interno del modello i possibili interventi di adattamento e valutandone l’effetto di breve e lungo periodo nei diversi scenari. Per fare alcuni esempi si sono analizzate e proiettate negli scenari di cambiamento climatico pratiche come l’introduzione dell’irrigazione a goccia, l’uso di pacciamature per conservare l’umidità del suolo o la variazione dell’orientamento dei filari. 

«Quella che realizzata è un’analisi di dettaglio che permette di valutare anche la vulnerabilità del sistema dal punto di vista agrario» spiega Moriondo. «Per capire come e quanto piccole variazioni di produzione incidano anche sul tessuto sociale, abbiamo analizzato diversi aspetti. Il tipo di conduzione, le caratteristiche degli operatori, quanti di loro basano il reddito sull’attività agricola, che età hanno, che dimensione hanno le loro aziende. Si è trattato di uno dei primi tentativi di valutare complessivamente l’effetto del cambiamento del clima sulle regioni viticole. Non solo stimando il danno sulla produzione e rappresentandolo in una mappa, ma anche per dire quanto quel danno alla fine ricadrà sul tessuto produttivo locale e quali potranno essere gli interventi di adattamento in grado di contenerlo nel breve e nel lungo periodo, in uno scenario piuttosto che in un altro».

Vino migliore grazie al cambiamento climatico, ma fino a quando?

I produttori di vino non hanno recepito subito il cambiamento climatico come una minaccia per le loro produzioni. Anche perché, nei primi anni e nel breve periodo, in molte regioni l’impatto è stato addirittura positivo. L’incremento delle temperature e della radiazione ha portato a dei benefici diretti e immediati nella maturazione delle uve, mentre la riduzione della piovosità ha ridotto l’incidenza delle malattie fungine legate ai marciumi del grappolo.

In un’altra pubblicazione uscita nel 2005 lo stesso Gregory Jones correlava di anno in anno i rating che classificano e premiano la qualità dei vini su scala internazionale con le temperature medie di alcune tra le regioni viticole più prestigiose. Per molte di esse esisteva una curva a campana, nella quale la qualità era premiata fino a un massimo oltre il quale cominciava a osservarsi un declino.

Il rischio che si prospettava per i viticoltori di molte regioni, mentre le uve maturavano sempre meglio e i riconoscimenti sulla qualità dei vini fioccavano, era quello di finire come la rana bollita. Una metafora estremamente efficace che si applica bene alla situazione in cui ci si accorge che un pericolo è reale solo quando è troppo tardi per “uscire dalla pentola”.

«L’industria del vino» ha recentemente affermato Jones su Forbes, in un articolo della Master of Wine Liz Tatch, «è come il canarino nella miniera di carbone, in quanto la vite è una coltura particolarmente soggetta alle conseguenze del cambiamento climatico». 

E che sia rana bollita o canarino nella miniera, il settore oggi si trova di fronte a una crisi alla quale sta cercando finalmente di reagire. 

Di fronte a un clima che cambia radicalmente, il concetto di terroir rischia di crollare come uno sgabello al quale sta bruciando una delle tre gambe.

La presa di coscenza dei produttori di vino

Solo negli ultimi anni i produttori italiani, francesi e spagnoli, hanno preso atto che le condizioni di coltivazione della vite, le rese e la qualità dei loro vini, stanno cambiando rapidamente. Contemporaneamente il limite di coltivazione si è spostato, come previsto, a latitudini e altitudini maggiori.

Nelle regioni del Nord Europa, dal Galles, al Nord della Germania fino anche alla Danimarca, le temperature hanno cessato di essere limitanti e le precipitazioni non lo sono mai state. Si stanno creando condizioni più adatte e si sta assistendo a un cambio di destinazione delle superfici coltivate, con l’impianto di nuovi vigneti dove c’erano forse pascoli o seminativi. 

La questione non è banale. La viticoltura europea ha fondato il suo modello di qualità sulla combinazione dei tre vertici di un triangolo: il clima, il suolo e la varietà. Il termine francese terroir descrive un approccio olistico alla spiegazione della qualità. Il motivo per cui i vini delle Denominazioni di Origine italiane, ad esempio, sono il frutto di un legame inscindibile tra suolo, clima e vitigno. È il motivo per cui il Primitivo di Manduria o il Brunello di Montalcino sono riconosciuti per le loro caratteristiche, proprio perché espressione, rispettivamente, del Primitivo e del Sangiovese in quei territori, e non in altri. E non è difficile capire che, di fronte a un clima che cambia radicalmente, il concetto di terroir rischia di crollare come uno sgabello al quale sta bruciando una delle tre gambe.

Un grappolo di Barbera con danni da scottatura. Le uve esposte alle radiazioni dirette sono sempre più soggette a questo fenomeno: correre ai ripari adottando tecniche di adattamento significa dare protezione al grappolo con la copertura fogliare, ma anche utilizzare delle reti ombreggianti o prodotti di copertura come il caolino, che funziona come una vera e propria “crema solare” per l’uva. Piemonte, 2021. Foto di Maurizio Gily.

Resilienza e qualità

La vite è una pianta dotata di plasticità e adattabilità in condizioni di stress moderato. È il motivo per cui in più di 8000 anni dalla sua domesticazione è riuscita a diffondersi in regioni con caratteristiche e climi molto diversi, seppur sempre compresi in una fascia climatica ben definita.

E per questo motivo la viticoltura moderna, orientata alla produzione di qualità piuttosto che all’incremento delle rese, sfrutta il mantenimento di un leggero stato di stress, per ottenere uve più mature e concentrate. Lo stress favorisce vini più alcolici, strutturati, colorati e aromatici, ma a tutto c’è un limite.

Il rischio non è che le viti scompaiano, ma che il loro prodotto non abbia più quelle caratteristiche che abbiamo associato ai concetti di qualità e tipicità che determinano il valore economico di un prodotto come il vino. 

Con l’aumentare delle temperature, la frequenza delle ondate di calore, la siccità estiva, l’incremento della radiazione diretta e dell’anidride carbonica nell’atmosfera, le piante stanno adattando il loro metabolismo. Il rischio non è che le viti scompaiano, ma che nelle nuove condizioni il loro prodotto non abbia più certe caratteristiche. Elementi che abbiamo associato ai concetti di qualità e di tipicità, costrutti culturali che determinano in tutto e per tutto il valore economico di un prodotto edonistico come il vino. 

Esposti alle alte temperature e a una radiazione solare diretta sempre più intensa i grappoli subiscono un’alterazione della loro composizione. Inoltre avvengono fenomeni di scottatura o sunburn, proprio come per la nostra pelle sotto il sole. E con l’uva anche i vini cambiano: la concentrazione in zuccheri sempre più alta produce gradazioni alcoliche maggiori, l’acidità decresce a discapito della freschezza. Parametro, quest’ultimo, fondamentale nei vini bianchi, rosati e spumanti, in cui anche il quadro aromatico si sta modificando, allontanandosi da quello finora riconosciuto e apprezzato.

Il punto di rottura del vino europeo

Fino a quando possiamo pensare di adattare la nostra viticoltura? 

«Le proiezioni concordano nel dire che il Sud del Mediterraneo è quello più esposto a un calo drastico delle produzioni. Può sembrare impopolare dirlo, ma se la temperatura aumenterà di un altro grado – come accadrà da adesso al 2050 – e le piogge continueranno a scarseggiare, anche al mantenimento della qualità ci si potrà adattare fino a un certo punto», osserva Marco Moriondo. «Si può effettivamente cominciare a pensare di irrigare, proteggere il grappolo dalle scottature, fare in modo che la chioma utilizzi meno acqua. Ma bisogna capire quanto e per quanto tempo queste pratiche potranno essere utilizzate in modo sostenibile dal punto di vista economico e ambientale. Si rischia di raggiungere un punto di rottura, per questo si iniziano a fare degli studi economici. Utilizzando i modelli climatici, si tenta di capire fino a quando converrà restare in una zona di produzione, cambiare varietà o piuttosto in casi estremi, spostarsi altrove», conclude Moriondo.

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  • Alessandra Biondi Bartolini

    Alessandra Biondi Bartolini è agronoma, giornalista e divulgatrice scientifica. Collabora con riviste tecniche del settore agricolo e vitivinicolo e con magazine e blog di divulgazione scientifica. È direttrice scientifica della rivista trimestrale Millevigne (Editore Vignaioli Piemontesi). Nell’attività di divulgazione prende spunto dalla chimica, la biologia e la fisica del vino per parlare di scienza, e dalla scienza per parlare di vino. Con Antonella Losa ha creato il podcast “C’è Fermento, storie di Uomini e Microbi”.

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