In Veneto, i PFAS hanno contaminato un’area in cui risiedono 350.000 persone. Le sostanze si sono diffuse ormai ovunque: nell’aria, nell’acqua, nella terra e nel sangue.
La responsabile è l’azienda Miteni, un tempo produttrice di PFAS. Per anni, Miteni ha inquinato le acque superficiali e di falda vicine allo stabilimento di Trissino, in provincia di Vicenza.
Oggi la cittadinanza delle zone colpite è alla ricerca di una giustizia ambientale che, per il momento, continua a essere negata.

Acqua, sangue e PFAS. Il disastro ambientale del Veneto

Testi di Gianluca Liva
Fotografie di Stefano Schirato
Il disastro ambientale provocato dal versamento di PFAS nelle acque del Veneto è uno dei più gravi al mondo. La responsabilità dell’azienda ex Miteni è stata accertata. A mancare, però, sono le risposte ai dubbi e alle paure delle persone che vivono nelle aree contaminate.

15 minuti | 29 Settembre 2023

Il caso di contaminazione da PFAS in Veneto è uno dei più gravi che si siano verificati al mondo. L’inquinamento interessa un territorio compreso tra le province di Vicenza, Verona e Padova. I PFAS, prodotti per decenni in uno stabilimento chimico nel comune di Trissino, a ridosso delle prealpi vicentine, hanno contaminato irrimediabilmente la grande falda acquifera sottostante.

Anno dopo anno, l’acqua contaminata da PFAS è stata usata per irrigare i campi agricoli; le persone e gli animali l’hanno bevuta. La verità è emersa in maniera molto graduale, e il disastro è divenuto cosa nota soltanto a partire dal 2013. Nonostante l’inquinamento da PFAS sia già stato trattato in passato dai media, non vi è ancora una consapevolezza diffusa del problema. A tratti, le vicende legate ai PFAS in Veneto hanno dell’incredibile.

La storia comincia nel 1965, quando a Trissino sorse il polo chimico dell’azienda RiMar (Ricerche Marzotto). Il centro di ricerca aveva il fine di sviluppare composti all’avanguardia, rivolti alle industrie tessili e della concia che costituiscono il peculiare distretto produttivo della zona. Poco dopo l’apertura dello stabilimento, la proprietà acquistò alcuni brevetti di tensioattivi dalle grandi aziende statunitensi produttrici di PFAS, DuPont e 3M. Nel 1977 avvenne il primo evento di contaminazione ambientale da parte dell’azienda: gli abitanti della zona vedevano uscire acqua gialla dai rubinetti. Le fonti di approvvigionamento erano contaminate da benzotrifloruri.

Arzignano, Vicenza

Impianto di depurazione dei liquami provenienti dalle 136 concerie allacciate alla fognatura industriale dedicata e quelli provenienti dalle circa 40.000 utenze dei 7 comuni della vallata. I fanghi risultanti dal processo depurativo subiscono una serie di trattamenti di accumulo-ispessimento, di disidratazione meccanica e di essiccamento termico, prima di essere smaltiti in discarica controllata e confezionati in sacconi. Arzignano, Vicenza.

Una moneta da un euro per acquistare una fabbrica

Da allora la RiMar ebbe varie vicissitudini. Dapprima venne acquisita da aziende pubbliche e, in seguito, EniChem e Mitsubishi la rilevarono, cambiando il nome in Miteni (Mitsubishi – Eni). Nel 1996 Mitsubishi acquistò il 100% del capitale azionario. Nel 2009 la proprietà giapponese vendette l’azienda alla ICIG, multinazionale tedesca la cui società madre ha base in Lussemburgo. L’acquisto avvenne per la cifra di un euro. A quei tempi l’attività principale dello stabilimento di Trissino non era più la produzione diretta di PFAS, ma il loro recupero dai filtri a carbone esausti che arrivavano dai Paesi Bassi e dal polo chimico Solvay di Spinetta Marengo, frazione di Alessandria. 

A inizio secolo scoppiò il famigerato caso di contaminazione da PFAS negli Stati Uniti, con protagonisti l’agricoltore Wilbur Tennant e l’avvocato Robert Bilott. La notizia raggiunse l’altra sponda dell’Atlantico e nel 2006 ebbe inizio il progetto europeo PERFORCE, coordinato dall’Università di Stoccolma. Il progetto aveva lo scopo di verificare la presenza di composti fluorurati nei principali fiumi del continente. Il fiume Po presentava i valori di PFOA più alti in assoluto. Nel 2007 professor Michael McLachlan, docente di chimica dei contaminanti e coordinatore del progetto, comunicò gli esiti dei campionamenti alle autorità italiane. Ci si trovava dinanzi a un nuovo tipo di inquinamento, provocato da sostanze le cui caratteristiche erano sfuggenti. Per dare un esempio di quanto la conoscenza sulle sostanze per- e polifluoroalchiliche sia cosa recente, basti pensare che fino ai primi anni 2000 non esisteva una tecnica analitica capace di misurare con precisione la quantità di PFAS nell’ambiente.

agripolis

Gli studenti del gruppo di Antonio Masi, professore associato, biochimico e fisiologo vegetale, studiano l’effetto dei composti PFAS sulle piante e sul suolo. Febbraio 2023, Scuola di Agraria e Medicina Veterinaria del Dipartimento di Agronomia, Campus di Agripolis, Padova.

A seguito dei risultati del progetto PERFORCE, le autorità italiane ed europee intrapresero  alcune iniziative volte a indagare quella che iniziava a profilarsi come una contaminazione diffusa ed estremamente grave. Fu così che, nel 2011, il Ministero dell’Ambiente e l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del CNR avviarono un’indagine nel bacino del Po, e in altri corsi d’acqua del paese, per comprendere l’entità e l’origine della contaminazione. Più o meno nello stesso periodo, Vincenzo Cordiano – medico ematologo di Valdagno, in provincia di Vicenza – non riusciva a spiegarsi la presenza di un numero elevato di pazienti con malattie del sangue. Si accorse che alcune persone con patologie specifiche erano ex lavoratori del polo chimico di Trissino. 

 

PFAS nell’acqua e PFAS in tavola

Lo studio di IRSA-CNR, coordinato da Stefano Polesello e Sara Valsecchi dell’IRSA, svelò una concentrazione di PFAS particolarmente elevata in alcune specifiche aree del Veneto. «Ai tempi raccoglievamo campioni d’acqua ovunque e viaggiavamo molto. Ci siamo fermati in un ristorante a Cologna Veneta, in provincia di Verona a circa 30 chilometri dalla ex Miteni, e abbiamo preso un po’ d’acqua dal rubinetto. Successivamente ci siamo fermati a raccogliere l’acqua di una fontanella di Montagnana, in provincia di Padova», ricorda Sara Valsecchi.

«Una volta rientrati, quando abbiamo visto i risultati, eravamo convinti di avere inquinato i campioni o di averli confusi con altri. I valori di PFAS nell’acqua potabile erano altissimi. Abbiamo comunicato i risultati al Ministero dell’Ambiente e, più tardi, abbiamo svolto altri campionamenti che hanno confermato la contaminazione. Abbiamo scritto alla Regione Veneto e venne indetta una riunione a Roma con tutte le autorità coinvolte. Non siamo stati noi a informare i giornalisti, ma a quel punto il caso era già stato reso noto. Tuttavia mi colpì molto vedere come la notizia rimaneva confinata in ambito regionale, trattata soltanto dai quotidiani locali».

L’azienda Acque del Chiampo gestisce i servizi idrici integrati in dieci Comuni nella Valle del Chiampo. I laboratori dell’azienda conducono analisi su circa 50.000 parametri all’anno, per garantire la qualità delle acque. I numerosi interventi lungo tutta la rete assicurano l’approvvigionamento di acque sicure da fuori dall’area contaminata, in collaborazione con altre aziende del settore e con la Regione Veneto. Arzignano, Vicenza.

«La notizia del disastro arrivò a livello europeo soltanto molto tempo dopo grazie agli interventi di collettivi di persone residenti nelle aree colpite, come le Mamme No PFAS. Una volta concluso il nostro studio, abbiamo comunicato subito i risultati al personale dell’ufficio del REACH del Ministero. Le informazioni sono state trasmesse immediatamente all’ufficio che si occupa di sicurezza delle acque», chiarisce Stefano Polesello, «ma a quel punto è successo ben poco. Nonostante avessero in mano i risultati, non sono stati presi provvedimenti immediati e non c’è stata una campagna di comunicazione affinché il nostro studio diventasse una notizia».

 

Le reazioni

Nel 2013, a seguito della pubblicazione del report dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente del Veneto (ARPAV), i risultati dello studio IRSA divennero di dominio pubblico. All’inizio dell’estate dello stesso anno, l’ex Miteni si autodenunciò all’ARPAV e dichiarò che nella falda sotto all’azienda era presente un inquinamento storico da PFAS e altre sostanze. L’azienda, come spesso accade, affermò subito che si trattava di un inquinamento provocato in passato e non imputabile all’allora proprietà ICIG. Il report di ARPAV parlava molto chiaro: la contaminazione era ubiquitaria e si estendeva sul territorio di tre provincie – Vicenza, Verona e Padova – interessando acquedotti, tubature, fiumi, e scarichi, come nel caso dello scarico Arica di Cologna Veneta dove giungevano i reflui di altri depuratori che non erano in grado di trattare PFAS.

Di fronte alla pressione mediatica, le autorità regionali decisero di intervenire con una serie di controlli e iniziative. Nel 2013 cominciarono i lavori per installare i filtri a carboni attivi negli impianti di distribuzione d’acqua potabile, con il fine di ridurre le concentrazioni di PFAS. Le azioni della Regione erano volte a tratteggiare le caratteristiche e l’estensione della contaminazione, per poi avviare un piano di monitoraggio degli alimenti, svolgere un’estesa indagine sul sangue delle persone che risiedevano nell’area più colpita e predisporre la sorveglianza sanitaria della popolazione esposta. 

In un primo momento, tra luglio 2015 e aprile 2016, la Regione e l’Istituto Superiore di Sanità diedero il via a un biomonitoraggio delle concentrazioni di PFAS nel sangue di più di 500 persone che vivevano nelle aree coinvolte. Le concentrazioni di PFOA nel sangue dei residenti di comuni come Montecchio Maggiore, Brendola e Creazzo erano notevolmente più alte rispetto a quelle di un gruppo di controllo. Successivamente, una medesima analisi ha coinvolto 120 persone che lavoravano o vivevano presso le aziende agro-zootecniche della zona. In questo caso, i valori di PFAS erano addirittura più alti di quelli del campione di popolazione generale.

screening pfas

Monica Lea Paparella, 48 anni, si sottopone alle analisi del sangue per monitorare la presenza dei PFAS nel sangue. La Regione Veneto programma delle analisi periodiche per verificare i valori dei PFAS nel sangue dei cittadini che abitano nella zona rossa. Lonigo, Vicenza.

Il Veneto a colori

La Regione suddivise l’area contaminata in tre zone: area rossa, arancione, gialla e verde, basandosi sui valori di PFAS nell’acqua riscontrati nel 2013. Si tratta di una suddivisione arbitraria, che però comporta grandi differenze nell’accesso ai servizi sanitari da parte delle persone. Nel 2016 la Regione ha avviato un piano di sorveglianza con l’obiettivo di identificare le malattie croniche degenerative provocate dai PFAS. Il piano, rivolto alla cittadinanza dell’Area Rossa, coinvolgeva circa 85.000 persone, nate tra il 1951 e il 2002. In seguito, la coorte è stata estesa anche agli individui nati tra il 2003 e il 2014. I risultati non sarebbero potuti essere più chiari e preoccupanti: la quasi totalità delle persone che si erano sottoposte allo screening avevano PFAS nel sangue e in alcuni casi i valori erano molto alti. Fu allora che il caso esplose.

Torrente Agno

Il torrente Agno è contaminato dai PFAS, scaricati per decenni dalla Miteni direttamente nel corso d’acqua e in un depuratore civile che scarica nel fiume Fratta-Gorzone, le cui acque sono utilizzate per irrigare i campi e allevare gli animali. Oggi la contaminazione delle acque sotterranee si estende per circa 180 kmq, interessando oltre 350.000 persone in circa 50 comuni di 4 province del Veneto. Ottobre 2022, Trissino, Vicenza.

Mentre accadevano tutti questi eventi, il polo chimico di Trissino aveva continuato a lavorare. Nel 2018 la ex Miteni si dedicava quasi interamente alla purificazione di materiale semilavorato per il recupero di PFAS da riutilizzare, come quelli raccolti nei filtri a carbone. I filtri provenivano da altri stabilimenti, come quello di Dordrecht, nei Paesi Bassi, di proprietà DuPont e poi Chemours. L’attività di recupero riguardava anche PFAS di nuova generazione, come il GenX e il cC6O4, che sono a loro volta finiti nelle acque del Veneto. 

«Il fascicolo aperto in Procura, grazie alle nuove risultanze, “prese il volo”. Il Nucleo Operativo Ecologico (NOE) dei Carabinieri di Treviso svolse una serie di indagini ambientali, ascoltò i testimoni e sequestrò la documentazione aziendale. Grazie a questo lavoro, emersero tutti i comportamenti non cristallini dell’azienda. Così cominciò l’iter giudiziario», racconta Edoardo Bortolotto, avvocato rappresentante di alcune parti civili nel processo contro l’ex Miteni, «la dirigenza conosceva molto bene l’esistenza dell’inquinamento. Nella fase di cessione tra Mitsubishi e ICIG, l’azienda aveva svolto una serie di indagini idrogeologiche da cui era emersa una situazione di inquinamento estremamente grave. Allo stesso tempo sapevano di ciò che stava succedendo negli Stati Uniti e avevano implementato una barriera idraulica già nel 2005, senza mai dichiararne l’esistenza. Tra il 2017 e il 2018 si sono individuati gli indagati: i vertici aziendali che si sono succeduti dal 2009 al 2018».

Edoardo Bortolotto

Edoardo Bortolotto, avvocato esperto in diritto ambientale, difende gli ex lavoratori della Miteni nel processo contro la Miteni spa. I risultati delle analisi effettuate dall’Arpav sui campioni prelevati dai serbatoi collegati ai canali, e nelle loro vicinanze, recentemente venuti alla luce durante i lavori di smantellamento degli impianti di Miteni, mostrano una significativa concentrazione di PFAS. È quanto recentemente portato all’attenzione della Corte d’Assise nel corso del processo che vede imputati 15 dirigenti di Miteni, Icig e Mitsubishi Corporation, accusati a vario titolo di avvelenamento delle acque, disastro ambientale senza nome, gestione non autorizzata dei rifiuti, inquinamento ambientale. Vicenza.

Stop alla produzione di PFAS. La fine di Miteni

Nel 2018, a seguito del ritrovamento anche di GenX e cC6O4 [i PFAS di “nuova generazione”, che Miteni recuperava dai filtri a carbone usati n.d.a.] e dopo l’allarme del governo olandese, la Provincia ha ordinato la verifica degli impianti di Trissino, pena la revoca dell’AIA.  La dirigenza dell’ex Miteni ha capito allora che era finita: servivano nuovi investimenti per rendere sicuri gli impianti e bonificare il sottosuolo. Nel mentre, le banche del territorio le toglievano fiducia e crediti sotto la pressione del movimento popolare. Nell’autunno dello stesso anno ha presentato i libri contabili in tribunale e ha dichiarato il fallimento. L’anno successivo l’azienda ha licenziato gli ultimi operai e ha chiuso definitivamente. Nel 2019 le autorità hanno concluso le indagini e individuato varie fattispecie di reato, tra cui l’inquinamento doloso delle acque. A novembre 2019 c’è stata la prima udienza di un processo per inquinamento ambientale senza precedenti in Italia.

La presa di coscienza del problema da parte della popolazione non sarebbe mai stata possibile senza l’intervento della cittadinanza, riunita sotto varie sigle, che lotta per conoscere (e far conoscere) tutta la verità. Senza le attività di realtà come Mamme No PFAS, ISDE associazione di medici per l’ambiente, CiLLSA, Cittadini Zero PFAS, Pfas.land e tante altre, non ci sarebbe mai stata quella spinta che ha costretto l’apparato pubblico a mettersi in moto. Tuttavia – tra lungaggini, omissioni e per via della natura stessa dei PFAS – sembra impossibile che l’intera vicenda si concluda in breve tempo.

trissino

I cittadini, le associazioni e i movimenti No PFAS del Veneto chiedono la bonifica dell’area dove sorge l’ex fabbrica Miteni, responsabile del grave inquinamento della falda acquifera, in provincia di Vicenza. Febbraio 2023, Trissino, Vicenza.

Il disastro del Veneto genera imbarazzo nelle istituzioni. Intervenire è necessario ma, ancora oggi, non esiste un metodo per eliminare i PFAS nell’ambiente. Dall’altra parte si tiene in considerazione anche il cosiddetto “danno reputazionale”, perché verrebbe meno la secolare narrazione di genuinità dei prodotti agricoli di queste campagne. Il tutto si risolve in una tensione tra ciò che andrebbe fatto e ciò che può effettivamente essere fatto, che spesso è sfociata in un’inerzia istituzionale che offende e svilisce le richieste di giustizia ambientale della popolazione.

Questa inchiesta è parte di The Forever Pollution Project, un’indagine crossborder a cui hanno partecipato 18 redazioni da tutta Europa. Un gruppo che oltre a RADAR Magazine include Le Monde (Francia), Süddeutsche Zeitung, NDR e WDR (Germania), The Investigative Desk e NRC (Paesi Bassi) e Le Scienze (Italia), e a cui si sono aggiunti Datadista (Spagna), Knack (Belgio), Deník Referendum (Repubblica Ceca), Politiken (Danimarca), Yle (Finlandia), Reporters United (Grecia), Latvijas Radio (Lettonia), SRF Schweizer Radio und Fernsehen (Svizzera), Watershed e The Guardian (Regno Unito).

Leggi la nostra inchiesta sui PFAS

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  • Gianluca Liva

    Gianluca Liva è storico e giornalista scientifico. Si occupa di attualità, ambiente e storia della scienza.
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  • Stefano Schirato

    Stefano Schirato lavora come fotografo freelance da oltre 20 anni, con un’attenzione particolare ai temi sociali. Collabora con diverse riviste, associazioni e ONG come Emergency, Caritas Internationalis, AVSI, ICMC, per le quali ha partecipato a progetti sui diritti umani, la crisi dei rifugiati e l’immigrazione clandestina. I suoi lavori sono stati pubblicati su New York Times, CNN, Newsweek Japan, Al-Jazeera, Vanity Fair, Le Figaro, Geo International, Burnmagazine, National Geographic, L’Espresso. Ha diversi progetti in corso in Russia, Europa dell’Est, Africa e India. È cofondatore della scuola Mood Photography, dove insegna fotogiornalismo dal 2014. Insegna anche alla Leica Akademie.

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