Valle Argentina, l’entroterra ligure che sopravvive allo spopolamento

Fotografie di Erica Balduzzi
Un viaggio in Valle Argentina, terra di spopolamento che conserva radici e memorie di vita vissuta. E in cui alcuni giovani stanno tornando.

10 minuti | 15 Luglio 2022

«Guardati attorno. Le vedi queste case? Sono quasi tutte vuote». Adriano allunga il braccio, fa un gesto che abbraccia il piccolo abitato a mezzacosta: case rurali dalle imposte sbilenche e affacciate su pendii di vigneti inselvatichiti, stradicciole sterrate e un silenzio irreale rotto soltanto dal fruscio del vento che scivola giù, lieve, verso la valle. Le montagne tutt’attorno sono compatte di boschi, e la selva incalza il paesino da ogni lato.

«Fino agli anni Quaranta, qui vivevano e lavoravano oltre centocinquanta persone. Ci si occupava soprattutto di viticoltura e piccola agricoltura familiare. La gente si prendeva cura del territorio, fermava l’avanzata del bosco e degli animali selvatici. Oggi, tutto è cambiato. È più difficile. Siamo rimasti in pochi, troppo pochi». 

 

Valle Argentina, una terra di contrasti

Adriano Sasso abita con la moglie Carla Panizzi ad Agaggio Superiore, una delle frazioni del comune di Molini di Triora, nell’entroterra imperiese. Siamo a due passi dalla Riviera dei Fiori ligure, ma quassù pare di stare in un altro mondo: lo scintillio del mare non arriva, le terre sono scoscese e la montagna è una madre e matrigna con cui fare i conti quotidianamente. 

Sbriciolata di paesini e borgate di antiche radici e moderni abbandoni, intrecciata di sentieri e di strade sconnesse che perdono qualche pezzo a ogni temporale, la Valle Argentina è un continuo incontro-scontro di contrasti: da un lato la natura selvaggia del paesaggio, l’incontaminata ricchezza dell’ambiente naturale, la suggestione di paesi che hanno mantenuto pressoché intatte le proprie caratteristiche architettoniche e strutturali. Dall’altro, l’esodo decennale delle popolazioni che la abitavano: una “alluvione demografica” che inesorabile ha svuotato i carruggi, abbandonato le colture, spopolato le piazze e restituito i pendii al bosco e agli animali. 

Un lavoro che non rende

«La gente va dove c’è il lavoro. E il lavoro che c’è qui, quello dei nostri nonni e dei nostri antenati, che traevano sostentamento dalla terra, non rende abbastanza», spiega Adriano. Ha la barba candida, il volto segnato dal sole, nelle mani la sapienza antica di chi si prende cura di piante secolari: vigneti e ulivi, per la precisione, per la produzione di vino E Bunde o Ormeasco di Pornassio DOC, e di olio extravergine di olive taggiasche. Il tutto rigorosamente a chilometro zero, nella cascina per il fieno riconvertita a cantina attrezzata che dà il nome (dialettale) alla sua azienda agricola, La Casciamèia

Un’attività, quella di Adriano e Carla, che dura da oltre vent’anni, quando hanno deciso di riprendere in mano i terreni di famiglia abbandonati da decenni e provare a salvare quel che restava della tradizione viticola di Agaggio Superiore: fino a un tempo relativamente recente, le vigne disposte sulle fasce assolate fornivano vino a tutta la Valle Argentina. Oggi, invece, a vinificare sono rimasti soltanto loro. «Un tempo tutti avevano le proprie vigne. Oggi è diverso, questo lavoro è faticoso, va fatto tutto a mano e rende poco. Ma dopotutto lo si fa perché lo si ama, e perché si ama la propria terra».

Valle Argentina

Adriano Sasso al lavoro sui suoi vigneti secolari, Agaggio Superiore, Comune di Molini di Triora (IM), 27 luglio 2021.

L’Italia delle aree interne 

La Valle Argentina vive le medesime problematiche comuni a tutte le aree interne d’Italia: da terre di vocazione prevalentemente agricola e pastorale a lande di spopolamento e abbandono, di persone che se ne vanno e che talvolta (raramente) ritornano. Secondo la fotografia territoriale stilata dall’Istat nel suo Rapporto sul Territorio 2020, nel nostro Paese al 1° gennaio 2019 erano 4.076 (pari al 51,4% del totale) i comuni classificati come “aree interne”. 

Sono comuni significativamente distanti, in termini di percorrenza, dall’offerta di servizi essenziali, collocati prevalentemente in zone montane o collinari. Rappresentano nel complesso il 60% della superficie nazionale e quasi il 22% della popolazione, con un indice di anzianità superiore alla media nazionale che è andato crescendo negli ultimi anni. Insomma, aree demograficamente fragili e spogliate dei servizi essenziali, per le quali nemmeno i bandi per l’attuazione di progetti di rigenerazione territoriale sono riusciti, finora,a invertire la tendenza.

Valle Argentina

Antonio Lanteri negli abiti tipici del paese di Verdeggia, Comune di Triora (IM), 23 settembre 2020.

L’imperiese interno, Valle Argentina inclusa, è la maglia nera della Liguria per questa tendenza: dal 1951 a oggi è stato caratterizzato da decrescita sistematica e oggi si trova a confrontarsi con una natura che avanza e con memorie e tradizioni che arretrano nell’oblio, non fosse per persone – come Adriano e Carla – che scelgono per la propria terra la via più difficile. Quella del rimanere o del tornare quassù, nonostante tutto, per provare a ricucire gli orli sfilacciati di passato e presente. 

 

Ricordi del passato in Valle Argentina

Incontro Stefano Caponi nel vecchio forno collettivo di Carpasio, frazione del comune sparso di Montalto-Carpasio. Sebbene sia estate, nell’antica struttura l’aria è umida e fresca, sa di luogo antico e immobile, fuori dal tempo: sarà per i testi in rame poggiati alle pareti, con cui un tempo si preparava la tipica torta verde farcita di riso e verdure di stagione? Oppure sarà perché tra queste pareti si respirano ancora le chiacchiere, le risate e i segreti che fino a pochi decenni fa venivano condivisi davanti al forno comunale, in occasione della cottura settimanale del pane? 

«Un forno così grande ci metteva anche più giorni per scaldarsi a pieno regime», spiega Stefano. Ha quasi novant’anni ma gli occhi sono ancora quelli di un ragazzino, e ha una gran voglia di raccontare. «Ogni due o tre anni veniva indetta un’asta per la sua gestione, a cui concorrevano tre famiglie. Veniva acceso una volta a settimana e allora cuocevamo il pane per tutto il giorno: centinaia di forme! C’era tanta gente a quel tempo e così ogni famiglia tracciava sulle proprie pagnotte un segno particolare per distinguerle». Il contrasto con il presente è impietoso: oggi il silenzio domina i vicoli, rotto soltanto da qualche saluto scambiato da una finestra all’altra. 

Servizi lontani

Piccolo paese a cavallo tra Valle Argentina e valle del Maro, Carpasio è stato fuso nel 2018 con il vicino abitato di Montalto Ligure senza tuttavia perdere un suo certo senso di diversità: oggi se ne sta lì, un accrocco di case poggiate a mezzacosta sul torrente Carpasina, custodi silenti di un passato fatto di carbonai, agricoltori e pastori e di un presente che di persone ne accoglie in pianta stabile solo un centinaio, quasi tutte anziane. 

«Non è facile far ritornare le famiglie» spiega Teresa Natta, carpasina doc e consigliera comunale. «Si potrebbero regalare le case, come stanno facendo alcuni comuni, ma servirebbero anche altre cose, contributi, incentivi… Servizi, soprattutto. La scuola è lontana, poche corse del pullman… Per fare qualsiasi cosa bisogna scendere a Taggia o a San Remo, e ovviamente questo impatta significativamente sulle scelte delle famiglie».

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La strada dello spopolamento

Per capire cosa intende Teresa basta guardare gli orari del trasporto pubblico locale: un’unica linea della Riviera Trasporti collega San Remo con Triora, ma le corse sono sporadiche, gli orari scomodi, e molte delle frazioni più isolate non vengono nemmeno raggiunte. Come capita ai remoti paesi di Verdeggia e di Realdo, due splendide borgate montane – le più alte dell’intera valle – fatte di case pietrose, tetti in ciappe d’ardesia e scorci mozzafiato sulle pendici del Monte Saccarello. Per raggiungerli c’è un’unica strada tutta curve e, soprattutto, molto dissestata. 

«Quando abbiamo scelto di restare quassù, conoscevamo bene i limiti del territorio, strada compresa», spiega Monica Garzo, che abita a Realdo con il marito Alberto Marino. «Però non è nemmeno possibile rischiare di scassare l’automobile sulle buche ogni volta che ci si mette alla guida: basterebbe un minimo di manutenzione. Una strada del genere è un deterrente sia per chi vorrebbe vivere quassù, sia per il turismo».

Chi decide di restare in valle argentina

Monica e Alberto sono due “innamorati delle radici” che, dopo aver gestito in paese una bottega di alimentari e un ristorante (entrambi chiusi anni fa), hanno deciso di restare, intagliando l’ardesia e affittando ai turisti un piccolo appartamento. Oggi fanno parte dei sette residenti in pianta stabile nel minuscolo paese, appollaiato in cima a una falesia come un nido d’aquila. 

«Quella di vivere qui è stata una nostra scelta, impagabile per la qualità della vita» continua Monica. «Ma non è sempre facile. Anzi. Significa scendere a patti con tante difficoltà pratiche: per la spesa, per esempio, bisogna scendere a valle perché di negozi, qui, non ce ne sono. Il turismo è scarso. Di lavoro, non parliamone neppure. Per questo la gente se n’è andata. E sai qual è la cosa curiosa? Realdo si è spopolato quando è arrivata la strada, negli anni Settanta: la strada ha reso più comodi i collegamenti, è vero, ma ha anche facilitato la fuga. E il paese ha iniziato a morire».

valle argentina

Scorcio panoramico sulla frazione di Corte e sulla Valle Argentina, Triora (IM), 20 aprile 2019.

nessun negozio, pochi servizi

A Realdo, oggi, le uniche due attività presenti sono un ristorante all’imbocco del paese e un rifugio. Alcuni minuscoli affittacamere intercettano i turisti di passaggio, soprattutto escursionisti e amanti della natura, molti dei quali stranieri.

La situazione è la stessa a Verdeggia: c’è un bar-ristorante ma nessun negozio. I più vicini sono a Triora, che da Realdo e Verdeggia dista all’incirca venti minuti di auto e che in virtù del suo inserimento tra i Borghi più Belli d’Italia è un po’ più frequentato dei paesini limitrofi. Ma anche in questo caso si tratta di piccolissime realtà più che di veri e propri punti di rifornimento, e per la spesa vera e propria tocca scendere ancora più a valle, fino a Badalucco oppure direttamente a Taggia, sulla costa. In auto ci si mette circa un’ora. Per molti, è troppo. 

 

Resistere e tornare

In queste terre le storie non sono mai del tutto individuali. Sono storie di comunità, di gruppo, ricordi condivisi ed esistenze vicine, simili, venate dalla medesima nostalgia: l’alta valle è terra di memorie che rischiano di svanire nell’oblio, terra di radici conficcate nella montagna ed erose dallo scorrere del tempo. 

«Vedi i boschi qua attorno? Decenni fa qui c’erano fasce coltivate, la foresta non era così vicina all’abitato», mi racconta Antonio Lanteri di Verdeggia, dando voce a una ridda di ricordi comuni che qui parlano soprattutto la lingua della terra e della pastorizia. Nelle voci dei verdeggiaschi ritrovo l’eco delle altre storie raccolte nella valle. «Coltivavamo il grano, l’orzo, le patate, ciò che serviva per vivere. La nostra  non era una vita facile, per questo molti sono scappati. Per questo i paesi si sono spopolati e il bosco si è ripreso le terre». Ma un abbandono di corpo, spiega, non è un abbandono di cuore: «Ci sentiamo tutti radicati qui. Molti di noi hanno lavorato a valle… Ma sono tornati non appena hanno potuto. Sono e siamo tornati perché ci mancava la nostra terra». 

Radici nella valle

È il richiamo ancestrale delle radici, forse, a farsi pressante, e a toccare sempre più spesso anche i giovani: e infatti, lentamente, inizia a prendere consistenza un timido controesodo di persone che tornano per raccogliere il testimone. Ci sono Andrea Lanteri, suo fratello Marco e la sua fidanzata Floriane, per esempio, giovanissimi pastori che hanno rimesso in piedi l’allevamento in quota e la produzione casearia del territorio a cavallo tra il confine ligure e quello francese. 

Oppure ci sono Rita e Patrizia Cugge, che nella borgata di Agaggio Inferiore hanno conservato la memoria artigiana della distillazione tradizionale della lavanda selvatica, e Silvia Bregliano e Matteo Oliva, intraprendente giovane coppia che ha ristrutturato alcune malghe sugli alpeggi di Drego per avviare un agriturismo, una fiorente azienda agricola tutta naturale e un punto ristoro con cucina casalinga e tradizionale. 

E ancora, c’è Augusto Borelli, che dopo aver lavorato come chef in Riviera è tornato a Triora e ha aperto una bottega di sapori del territorio, nella quale vende conserve stagionali e a chilometro zero ma anche prodotti locali, formaggi e dolci tipici, in rete con altri piccoli produttori. «Alla base del mio lavoro c’è tutto quello che sapevano le vecchie generazioni. Certo, io forse ci ho messo la tecnica, ma le radici, la saggezza… Quelle vengono da chi c’era prima. E io con le mie ricette voglio dare continuità a questa storia comune, alle radici di questa bellissima valle».

Patrizia Cugge, dell’Antica Distilleria Cugge, raccoglie i fiori maturi di lavanda da cui ricaverà  il pregiato olio essenziale, secondo le tecniche estrattive tradizionali della valle Drego, Comune di Molini di Triora (IM), 27 luglio 2021.

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  • Erica Balduzzi

    Erica Balduzzi è reporter freelance. Scrive soprattutto di narrazione del territorio, tradizioni locali, montagna e ambiente, con un occhio di riguardo per le comunità dei luoghi marginali.

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