L’Ethos degli orti botanici

Testi di Renato Bruni
Fotografie di Elisabetta Zavoli
Da fortini verdi ad aule a cielo aperto, ecco come sono cambiati nei secoli i luoghi in cui custodiamo la biodiversità vegetale.

14 minuti | 3 Settembre 2021

I passaggi di alcuni libri sono come certi panorami: rivederli non stanca mai, perché ogni volta regalano una sfumatura nuova, evolvendosi con chi legge. Uno di questi si trova in I Piccoli Maestri di Luigi Meneghello, forse il meno retorico dei libri sulla lotta partigiana. Va in scena nel momento in cui, tra i boschi veneti, un gruppo di giovani intellettuali di città ne incrocia un altro ben diverso, composto da persone dalle mani callose e più propense all’azione. I primi hanno studiato tutta la teoria, i secondi conoscono solo la pratica. L’arduo compito di fondere idealismo colto e concretezza contadina viene assegnato a una domanda (Ciò, che èthos gavìo vialtri?), che unendo dialetto e filosofia tenta di mettere in contatto due grammatiche della vita molto lontane, eppure accomunate dall’urgenza di organizzare una resistenza efficace.

Una nuova sfumatura di questa domanda emerge oggi, entrando in luoghi lontanissimi dagli eventi narrati da Meneghello, sebbene anch’essi attivi in una resistenza, quella sul fronte delle relazioni tra uomini e ambiente. Ad esempio: oggi, che èthos hanno gli Orti Botanici? Queste strutture, spesso incastonate nel centro delle città e viste sovente solo come bei giardini, vivono in realtà di un’anima poliedrica che meriterebbe maggior cura.

Sono sì parchi ma anche laboratori, aule a cielo aperto ma anche foreste urbane, porte usate dal colonialismo per arricchire gli imperi e dalle università per autopromuoversi, ma sono anche santuari della biofilìa e piattaforme di scambio uniche tra natura, scienza e società. Il loro èthos, negli ultimi 500 anni, è cambiato più volte e si sta ulteriormente evolvendo sotto ai nostri occhi, nonostante difficoltà e limiti di vario tipo.

Giacomo Menini, una guida dell’Orto Botanico di Padova, visita la serra delle epifite, in cui sono accudite varie specie tropicali. La conservazione di specie rare e minacciate è una delle più rilevanti attività di queste strutture. Si stima però che su scala globale solo il 10% delle risorse sia in realtà dedicato a questo fondamentale impegno. Padova, 28 agosto 2021

La serra delle epifite vista dalla roccera alpina. Sullo sfondo si alzano alcune abitazioni private. Nati spesso ai margini delle antiche città, gli Orti Botanici più vecchi hanno subito processi di urbanizzazione che ne limitano l’espansione e ne complicano la gestione. In questo possono rappresentare laboratori per le foreste urbane necessarie a mitigare gli effetti del cambiamento climatico Padova, 28 agosto 2021

Fortini verdi e piante medicinali

Durante il Medioevo il mondo laico e quello religioso coltivavano, nella mente e con le zappe, il concetto dell’hortus conclusus, sul quale si è fondata buona parte degli Orti Botanici fino ad oggi. Una sorta di fortino verde, recintato da mura che lo isolavano dal resto del mondo, in cui blindare valori e pensieri da un esterno considerato malvagio e contaminato dall’impurezza. Le mura segnavano il dentro e il fuori, tenendo oltre i cancelli quel che non era percepito come simile, come cultura, serenità, miglioramento, idealismo. La poetica che cementava i mattoni di quelle mura fisiche e mentali prevedeva che solo nello spazio inaccessibile la natura potesse ritrovare la sua originaria purezza e che solo così certi valori potessero essere coltivati, cresciuti e difesi. Come se l’uomo “di fuori”, il popolano dalle mani callose (ma in epoche più recenti pure l’esperto di altre discipline), fosse un agente perturbatore anziché parte integrante del contesto.

Una delle vere trasformazioni degli Orti Botanici è rappresentata proprio dal recente e graduale affrancamento da questa visione, con la progressiva affermazione di un modello aperto e l’accoglienza di saperi diversi sotto un tetto unico, all’ombra delle chiome degli alberi. Oggi si tratta di luoghi in cui, a differenza delle normali aule, dei semplici musei e dei comuni laboratori, possono convivere ricerca scientifica e divulgazione, estetica e didattica, operando in sinergia. In questo, si tratta di strutture uniche nel panorama culturale e scientifico, con un’identità assente in altri ambiti nei quali queste forme del sapere hanno ciascuna case separate e spesso non comunicanti.

La strada, dall’hortus conclusus alle migliori strutture odierne, ha previsto varie tappe. In Europa, i primi Orti Botanici non sono nati come la culla della tassonomia e della sistematica che ora conosciamo, ma come costola delle facoltà di Medicina e Farmacia, che nel Cinquecento avevano bisogno di luoghi didattici per impartire lezioni sul riconoscimento e l’uso delle piante medicinali. E ancor prima dell’ingresso dei temi della biodiversità e dell’arrivo di turisti, scolaresche e appassionati, gli Orti Botanici europei hanno ricoperto, dall’Ottocento in poi, il ruolo di porta d’accesso di piante esotiche, con una forte vocazione pratica mirata ad accogliere, acclimatare e diffondere specie destinate ad aumentare la ricchezza degli imperi tramite l’agricoltura, l’industria, la farmacia e qualunque ambito commerciale, incluso il giardinaggio.

La visione, non solo dei saperi tradizionali ma anche delle piante stesse, era quella dell’utilitarismo: a contare erano le piante con cui costruire filiere e alimentare industria, agricoltura e commercio. Solo successivamente si afferma l’Orto Botanico come culla di un ethos di stampo tassonomico mirato alla catalogazione prima e all’ecologia poi, attento a raccontare i vegetali come nostri “concittadini”, rilevanti a prescindere da ciò che ci possono dare più o meno direttamente in termini economico-pratici.

Alcuni visitatori percorrono il vialetto su cui si affacciano le serre ottocentesche (sulla sinistra) e le piante importate in Italia dai diversi continenti del mondo tramite l’orto botanico, nel corso dei secoli (sulla destra), secondo una tendenza tipica dell’epoca coloniale. L’asimmetria nei rapporti resta testimoniata dalla distribuzione degli orti botanici sul pianeta: capillare in occidente e lacunosa nei paesi tropicali, dove le azioni di conservazione sarebbero più necessarie ed efficaci. Padova, 28 agosto 2021

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Orti botanici, invertire la rotta

Il 12 aprile di quest’anno, un aereo cargo è decollato dal nostro paese verso il Cile. La sua stiva ospitava circa un migliaio di quelle piante che comunemente chiamiamo cactus, sequestrate tra Marche e Romagna a un contrabbandiere che anno dopo anno le aveva estirpate dal deserto di Atacama per soddisfare la brama di possesso di qualche collezionista. Questa notizia può essere rubricata tra le molte relative agli aspetti più deviati del nostro rapporto con le piante, viste come oggetti al servizio dei nostri capricci e bisogni, oppure può diventare a suo modo il simbolo di uno snodo importante: per gli Orti Botanici l’era dell’hortus conclusus, nelle sue varie declinazioni, è al tramonto. Quel volo, col suo carico di rari Copiapoa ed Eriosyce, ha ribaltato molte dinamiche. Non portava piante esotiche da paesi lontani verso i cosiddetti paesi sviluppati per finalità economiche, ma le restituiva agli habitat originari con un grande sforzo di conservazione.

In più, le strutture coinvolte (ad esempio gli Orti Botanici di Milano e di Torino) non si sono limitate all’azione, ma hanno provveduto a comunicare in modo capillare sui media il loro ruolo nella cura di quelle piante, così come nelle indagini delle autorità, nel riconoscimento delle specie e nel sensibilizzare l’inopportunità di collezionare specie minacciate sottratte da habitat a rischio. In altre parole, hanno comunicato alla società una fetta importante del loro ethos attuale e hanno messo assieme il dialetto della comunicazione con l’ideale della conservazione, della competenza e dell’educazione sociale. Una minima aliquota delle piante sequestrate è infatti rimasta, per raccontare una storia ai visitatori. Questo ha permesso di aprire i cancelli sul problema trascurato del bracconaggio vegetale, ponendo gli orti botanici in una posizione di autorevolezza nel rapporto tra ricercatori e società. Da hortus conclusus refrattario ai contatti a punto di riferimento per l’esterno, socialmente attivo sui temi ambientali e della sostenibilità. Questo esempio fortunatamente non è l’unico, così come non è la conservazione ambientale l’unico campo in cui gli Orti Botanici si stanno spendendo, pur tra alti e bassi, nell’ultimo decennio.

L’Abbazia di Santa Giustina si riflette nelle grandi vasche con ninfee, prospicienti alle moderne Serre della Biodiversità, all’interno dell’Orto Botanico di Padova. L’unione tra la parte tradizionale, antica, e quella moderna consente di percorrere la progressiva trasformazione degli Orti Botanici. Padova, 28 agosto 2021

La riproduzione della foresta pluviale “allagata” all’interno del primo edificio delle Serre della Biodiversità è ricca di piante epifite e l’atmosfera è satura di umidità. Una delle funzioni di queste strutture resta quella di “portare in città” una natura altrimenti lontana. Padova, 28 agosto 2021

Quanti, cosa, dove

In base alla definizione data dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, un Orto Botanico è un giardino aperto al pubblico, contenente collezioni vegetali scientificamente ordinate e attivo a fini ricreativi, educativi e di ricerca. Le ultime stime disponibili parlano di oltre 3400 Orti Botanici sparsi in oltre 150 nazioni, di oltre 300 milioni di visitatori all’anno grazie al lavoro di oltre 60.000 tra tecnici, giardinieri e ricercatori, impegnati ad accudire circa il 30% delle specie note, pari al 60% dei generi e al 95% delle famiglie. Si ritiene che oltre il 40% delle specie vegetali minacciate trovino rifugio in un Orto Botanico, incluse almeno 500 già considerate estinte in natura.

Al tempo stesso queste strutture ospitano praticamente tutti gli erbari attivi, con milioni di specimen disponibili per ricercatori di ogni ambito. Sebbene con una fortissima e deprecabile contrazione negli ultimi anni, si fanno carico di monitorare la biodiversità nei territori di loro competenza e provvedono a individuare le circa 2000 nuove specie vegetali che ogni anno vengono riconosciute.

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Numeri a parte, gli Orti Botanici occupano una posizione assolutamente privilegiata, sia per le potenzialità di ricerca che per le relazioni con il pubblico: sono presenti in modo capillare sul territorio, sono un ponte tra accademia e scuole di ogni ordine e grado, le persone vi entrano sgravandosi delle tensioni quotidiane, assumendo uno stato d’animo propenso all’apprendimento. Sono, e questa è una grande differenza rispetto ad altre strutture simili, fortemente connessi alle comunità e ai territori di riferimento. In più, rappresentano un’ambasciata urbana degli ecosistemi più disparati e la loro dimensione locale permette di portare alle persone testimonianze di fenomeni talvolta percepiti come lontani, come quelli del cambiamento climatico, trasformandoli in laboratori didattici di citizen science. O al contrario, possono calibrare al meglio sulle esigenze locali gli interventi legati ai rapporti uomo-piante, come la gestione sostenibile del verde urbano e l’ottimizzazione dei servizi ecosistemici da esso forniti. In altre parole, sono degli snodi tra le distanze fisiche e culturali tra gli uomini di città e le piante.

Ad esempio, in ambito urbano gli Orti Botanici possono guidare la scelta delle alberature più opportune, anche fungendo da hotspot di formazione per operatori e cittadini. Possono guidare con competenza scientifica la transizione ecologica verso una gestione più attenta ai bisogni delle piante, educando sulla rilevanza di certe prassi nella mitigazione delle isole di calore, del runoff delle piogge, nell’abbattimento di inquinanti, nell’accoglienza della biodiversità in città, nelle potature e nella gestione degli sfalci, nella scelta delle specie più adatte. È dalla loro piattaforma che queste istanze così rilevanti nella società odierna possono decollare, evitando storture dettate dalla scarsa competenza ed è su questa pista che scalda i motori il prossimo ethos degli Orti Botanici.

Ninfee di diverse specie vivono nella grande vasca all’interno della foresta pluviale “asciutta” il secondo bioma riprodotto nelle Serre della Biodiversità. Uno dei temi più critici per queste strutture è legato ai costi di manutenzione e di personale, non sempre valorizzati a dovere dalle istituzioni che le gestiscono. Padova, 28 agosto 2021

Cactus di diverse specie all’interno del bioma arido riprodotto nelle Serre della Biodiversità. Queste ed altre specie risentono dei cambiamenti climatici e rappresentano un testimone utile per comunicare gli effetti delle migrazioni vegetali dettate dal riscaldamento globale. Padova, 28 agosto 2021

Le piante al centro, non le discipline degli uomini

Dopo quel Ciò, che èthos gavìo vialtri?, le gesta dei Piccoli Maestri di Meneghello non saranno sempre eroiche. Anzi, saranno spesso disordinate e fallimentari, e molta fatica servirà per rendere concreto l’ideale di partenza. I suoi protagonisti colti, “non sono mica buoni a fare la guerra” così come, talvolta, i ricercatori non sono sempre “buoni” a far rendere al massimo le potenzialità odierne di un Orto Botanico.

Non mancano le eccezioni e non mancano le strutture oggetto di grande rilancio da parte di alcuni Atenei anche italiani, ma la realtà vede sovente inespresso il potenziale di questi luoghi unici. Una ragione è tanto prevedibile quanto vera: come i partigiani cantati da Meneghello anche gli Orti Botanici sono dotati di risorse insufficienti a trasformare le idee e gli ideali in realtà concrete; molti languono nella sussistenza quando non nel declino.

Ma esistono anche altre zavorre al reperimento e alla gestione delle risorse. Una è che per molte istituzioni un Orto Botanico resta una pura voce di costo e non un investimento, cosa che impedisce lo strutturarsi ottimale delle competenze o l’acquisizione di personale formato a gestire le parti di comunicazione e divulgazione in modo moderno. Questo, ad esempio, si traduce in un’attenzione insufficiente per l’evoluzione della divulgazione scientifica extra-accademica e dei suoi modelli, spesso più efficaci della normale didattica nel cementare quel triangolo natura-scienza-società che rende unici gli Orto Botanici.

Un’altra ragione sta nei limiti degli ultimi lasciti dell’hortus conclusus, in narrazioni dettate da discipline settoriali gelose dei loro ambiti anziché incardinate sulle storie che le piante possono raccontare in modo trasversale, ponendo le piante stesse e non gli uomini al centro. In questo senso molti Orti Botanici faticano, ad esempio, ad aprire i loro cancelli ai legami con l’agricoltura o con l’ecologia urbana. Pur con eccezioni, questo ostacola l’uso degli Orti Botanici nella disseminazione di conoscenze sulla sostenibilità delle filiere agricole e sullo sviluppo delle scienze connesse alle piante coltivate, anche in ambiti come quelli dei wild relatives in cui biodiversità ecosistemica e agrobiodiversità hanno forti punti di contatto.

La “Palma di Goethe”, così chiamata dal nome del famoso scrittore che ne parlò nel 1786 durante il suo viaggio in Italia, è protetta all’interno di un’apposita serra. È un esemplare di Chamaerops humilis la cui messa a dimora risale al 1585, circa quarant’anni dopo la fondazione dell’Orto Botanico. Queste strutture, per la loro lunga storia, sono luoghi privilegiati per osservare alberi monumentali e per comunicarne l’importanza ecologica e sociale. Padova, 28 agosto 2021

Attualmente, gli Orti Botanici che hanno mantenuto un impianto di comunicazione tradizionale e più istituzionale soffrono di uno scarso appeal a causa della poca attenzione prestata ai processi di audience development utili a coinvolgere un pubblico che non sia solo quello dei già appassionati. In alcuni casi poi, si è lavorato sulla spettacolarizzazione delle strutture architettoniche, il cui appeal ha sovrastato il contenuto e i messaggi nell’attenzione mediatica, mentre in altri si è optato per la medesima soluzione in voga nell’arte più commerciale: l’attrazione tramite eventi unici, come le fioriture di piante rare, esotiche, enormi o eccentriche, svuotandole però del contesto scientifico e dei messaggi educativi.

Uno studio, condotto nel 2017 raccogliendo dati da 200 Orti Botanici in 70 paesi, ha ad esempio rivelato che il coinvolgimento del pubblico in questi luoghi faceva leva prevalentemente sul tema estetico: festival di orchidee, spettacoli di luci ed eventi musicali. Quasi nessuna struttura tra quelle monitorate ha promosso la ricerca scientifica legata ai vegetali come attrazione per i visitatori, di fatto abdicando al vincolo ricerca-divulgazione che rende uniche queste strutture.

Molti Orti Botanici stanno invece iniziando a cercare di parlare di temi, superando il vincolo delle discipline e della spettacolarizzazione fine a sé stessa, lavorando sull’equilibrio tra le diverse anime. Piante e collezioni cominciano a diventare uno strumento e non un fine, una grammatica che rende comprensibili ai visitatori concetti e ragionamenti legati al mondo contemporaneo da essi vissuto, in modo immersivo e attivo.

Nel fare questo, ai ricercatori si uniscono altri professionisti e i primi non sono lasciati soli a gestire linguaggi che non gli appartengono (e viceversa per le competenze scientifiche). Questo significa unire filosofia e dialetto come tentava di fare Meneghello, investire non sulla meraviglia fine a sé stessa o sulla semplice esposizione di dati e specimen, bensì su narrazioni che permettano ai visitatori di sentirsi parte attiva e critica del percorso, dando un vero senso a quell’unicum offerto dalla fusione di aule e laboratori nel verde.

I temi della sostenibilità ambientale nella loro interezza (dall’ecologia fino alla progettazione di nuovi materiali), della relazione tra bisogno di semplificazione e complessità del reale e quelli dei metodi della ricerca scientifica possono trovare un eccellente luogo di semina in un giardino botanico. La lentezza della ricerca e della crescita più solida affiancata a quella della vita arborea, la complessità intrinseca della natura e dei suoi infiniti e mutevoli equilibri, la flessibilità delle piante di fronte ai cambiamenti, il ruolo dei vegetali nell’equilibrio ecologico urbano e planetario, sono ispirazioni che gli Orti Botanici più attenti iniziano a usare come pilastri delle loro attività in modo innovativo, anche avviando partenariati attivi con competenze spesso extra accademiche, come quelle della divulgazione scientifica.

Si tratta “solo”, come senza retorica notava Meneghello, di fondere dialetti e filosofia, ideali e concretezza percorrendo una strada sicuramente complessa, ma necessaria per organizzare una resistenza efficace.

La sezione delle piante aromatiche del Giardino dei semplici, circondato da mura di protezione costruite per evitare furti. Ai tempi della sua costruzione, le piante medicinali erano un bene prezioso e ambito. Oggi la loro rilevanza non è inferiore: dei 175 farmaci antitumorali approvati dal 1940 al 2012, la metà è direttamente derivata da sostanze naturali. Padova, 28 agosto 2021

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  • Elisabetta Zavoli

    Elisabetta Zavoli è una fotografa documentarista specializzata nelle tematiche ambientali e nel rapporto tra esseri umani e ambiente.
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  • Renato Bruni

    Renato Bruni è direttore scientifico dell’Orto Botanico dell’Università di Parma, dove è professore associato in Biologia Farmaceutica e studia i legami tra piante, chimica e benessere. Fa parte del Consorzio Forestale KMVerde e dal 2018 partecipa a Picturing the Communication of Science, un think tank interdisciplinare che analizza la figura professionale del comunicatore scientifico. È autore di libri, tradotti in diversi paesi, dedicati al mondo vegetale: Erba Volant (Codice, 2016), Le piante son brutte bestie (Codice, 2017), Mirabilia (Codice, 2018), Bacche, superfrutti e piante miracolose (Mondadori, 2019). Cura il blog “Erba Volant”.
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